Ancora tanti ricordi dei mitici anni ‘60 (io c’ero)

la terrazza del Lido Delizia Petrucci

I ricordi sono tanti e tutti belli, forse anche perché, ai Bagni Petrucci, noi tutti i cugini della nostra generazione, abbiamo passato insieme, i migliori anni della nostra gioventù: allegri, spensierati, felici e beati; ovviamente avevamo un sacco di amici, con alcuni dei quali siamo tutt’ora amici, e insieme ci divertivamo, come fossimo nel “Paese dei Balocchi”!!!
I bagni, le calate, le gare di nuoto: di resistenza e di velocità, le “varchiate” (passeggiate, in barche dello zio Tano), la pesca subacquea e con la canna, sul tardi le partite di pallone in spiaggia che facevano disperare la zia Pina, i tamburelli, le chiacchierate fra ragazzi, lo spuntino alla Buvette e i gelati.
Alcuni ragazzi di Romagnolo venivano chiamati “I Picciotti di Romagnolo”;

alcuni Picciotti di Romagnolo

con alcuni di loro la “zia Pina”, zia di tutti per antonomasia, era in eterno conflitto insieme al famoso “Ferrigno”, il quale faceva bene, il suo sgradevole lavoro: cercare di non fare entrare gratis chiunque.
Ricordo le liti nelle quali il Ferrigno spalleggiava sempre lo zio Nino e a volte si prendeva anche qualche cazzotto al posto suo.
Un altro ricordo, adesso inconcepibile, è che la zia Pina insieme a Maria (dama di compagnia della zia Pina) o a qualcuna delle mie cugine più grandi (Maria Teresa, Giulia o Carolina, figlie di zia Rosina) “affittavano”… si avete capito bene, “affittavano” i costumi, rigorosamente di lana, che poi venivano lavati e riaffittati… Allora non era stato ancora inventato l’elastan e i tessuti tecnici di adesso; i costumi erano di lana… che a contatto diretto della pelle bagnata, “pungevano” terribilmente, senza contare che in acqua pesavano tantissimo e nuotando scivolavano facilmente giù, soprattutto quando ci si immergeva sott’acqua o peggio ci si tuffava dalla barca o dalla pagoda.
I ricordi si accavallano, sembrano tanti flash che si susseguono in ordine sparso e che sono così vividi che se chiudo gli occhi, come per incanto, mi sembra di essere ai Bagni Petrucci…

Intervista

LA COLONNELLA

Buongiorno,
vi faccio ascoltare l’intervista, divisa in tre pezzi, che mio cugino Antonino Di Paola, uno dei tre figli di mia zia Ninfa, ha fatto al Sig. Ugo Bucchieri e sua moglie di 96 anni e anche quella fatta al Sig. Pietro Di Lorenzo, gestore della Sirenetta di Isola delle Femmine.
Ringrazio molto affettuosamente mio cugino, che come sempre è un mito, per la bellissima intervista;
ringrazio davvero di cuore il Sig. Ugo Buccheri, peraltro lucidissimo, per i ricordi che ha condiviso con noi;
ringrazio tantissimo anche il Sig. Pietro Di Lorenzo che tuttavia ricorda e saluta Giulia e Toni Petrucci i miei cugini, figli di Natale ed Enza Bambino, che insieme hanno scritto il romanzo “L’estate dei microbi – Accadde a Romagnolo”

prima parte

Ricordo benissimo la famiglia Pomar, che abitava accanto alla famiglia del Dottore Barone, non lontano da dove abitavo io, ma non sapevo che la Signora Agnese accendesse le luci della Madonnina della Colonnella, peraltro io e la figlia andavamo insieme con il pulmino della scuola, all’Istituto delle suore Domenicane “Maria Santissima del Rosario” in via Gian Filippo Ingrassia.
A quei tempi, Romagnolo era soltanto la via Messina Marine, le traverse che portavano verso Corso Dei Mille: Viale Amedeo D’Aosta – all’inizio della quale c’era il portone e il giardino della casa dei miei nonni: Antonino Petrucci e Giulia Zunica Petrucci – via Salvatore Cappello e via Armando Diaz non esistevano.

MIO PADRE GIOUSEPPE PETRUCCI
E SULLO SFONDO LA PAGODA CINESE

seconda parte
terza parte

Ho fatto delle ricerche sul Web e credo comunque che il Prof. Emerito di Antropologia culturale, dell’Università di Palermo, Aurelio Rigoli, non abbia progettato la Pagoda Cinese, come erroneamente sembrava dall’intervista, magari era stato sì il responsabile della Palazzina Cinese… ma non credo abbia progettato la Pagoda cinese dei Bagni Petrucci.

I rumori dei bagni Petrucci

I rumori o i suoni che caratterizzavano i Bagni Petrucci erano tanti, quanti erano i periodi dell’anno.
Io abitavo poco lontano dalla famosa “Casa di fronte al mare” dei miei nonni, abitavo al 241 di Via Messina Marine, e da lì sentivo tutti i rumori dello Stabilimento; tutto iniziava in primavera con la febbrile costruzione delle palafitte: tanti operai in contemporanea, ma in luoghi diversi, battevano sui chiodi conficcati sulle tavole per costruire sapientemente le palafitte; era un rumore amico, un battere, come posso definirlo?… “sfalsato” forse, di martellate ben assestate che nel mio immaginario, era l’inizio della stagione estiva, con la conseguente fine della scuola e l’inizio dei divertimenti, degli incontri con gli amici di sempre e l’inizio di nuove amicizie.
Un altro rumore amico era quello della risacca: un rumore, sempre uguale che a seconda da dove lo ascoltavi, per esempio quando lo ascoltavi da lontano, era rassicurante; era invece distensivo, se lo ascoltavi sdraiato in riva al mare a prendere il sole, oppure era molto divertente quando si giocava a rimpiantino con il mare…Il gioco consisteva nel non farsi acchiappare dalle onde della risacca: a piedi nudi, o pure con le scarpe, le giapponesine o gli zoccoli, cercavi di scappare per non farti lambire dal mare… era sempre un divertimento ma molto più divertente se fatto insieme agli amici e credetemi il mare sapeva sempre come fregarti…e finiva sempre con grandi risate.
Altra cosa era il rumore prodotto dai cavalloni, quando c’era maltempo e quindi c’erano le mareggiate provocate dal vento di Tramontana o dal vento di Maestrale: quando il moto ondoso raggiunge il massimo della sua intensità e potenza sulla battigia e le onde subiscono una violenta e subitanea accelerazione; di solito il rumore dei cavalloni che si susseguivano incessantemente, si frammezzava con le grida dei gabbiani che si divertivano a giocare col vento, librandosi controvento, anche se allora i gabbiani erano molto pochi, non come adesso che sono tantissimi.
Ricordo con rimpianto il suono del jubox, collocato sulla grande terrazza dello stabilimento Petrucci, che mi arrivava da lontano quando ero a casa, con le gettonatissime canzoni del momento; 50 lire una canzone, 100 lire tre canzoni a scelta e quando eri sulla terrazza e magari la scelta delle canzoni l’avevi fatta tu, la musica ti inebriava e seguivi canticchiando le parole del tuo motivo preferito; a volte, ed erano i grandi che se ne lamentavano, la musica era troppo forte e impediva loro di chiacchierare…
Un vecchio amore il jubox… troppo presto soppiantato dalla tecnologia che va sempre come il vento.
E poi c’erano le grida divertite dei bambini che se la godevano entrando in acqua, e giocando proclamavano felici la loro spensierata allegria;
il loro chiamarsi per nome incitandosi l’un l’altro per vincere una gara di nuoto o di tuffi oppure per acchiappare un pallone quasi sempre deviato dalla brezza che spirava sempre tesa, ma ristoratrice della calura estiva.
Bellissimo il vociare dei tanti capannisti e l’allegria per le feste che si facevano quando s’incontravano e calorosamente si salutavano, meraviglioso il chiacchiericcio sommesso, ogni tanto punteggiato dalle fragorose risate magari per una barzelletta raccontata o per un fatto buffo accaduto… ogni scusa era buona per divertirsi spensieratamente.
Mi ricordo pure, con tanta nostalgia, lo sciabordio del mare sugli scogli, quando il mare s’intrufolava nella scogliera, ormai inesistente, per arrivare sempre più in fondo e con l’alta marea magari liberare un granchietto intrappolato in una conchetta.
Tutti suoni e rumori, impressi nella mia memoria e amati allora come ora, che con piacere e tanta nostalgia ricorderò per sempre.

La Pietralba

“Da Romagnolo a Vimercate” di Pietro Leto

“Da Romagnolo a Vimercate” di Pietro Leto

[foto Pietro Leto]

Pietro Leto, amico dei miei cugini Totino, Ninetto e Mariuccio, figli di zia Ninfa e zio Pietro Di Paola, frequentava lo stabilimento Petrucci negli anni ‘60, diventando amico anche di Antonello, mio fratello, e mio.
Pubblico con piacere alcuni passaggi del suo racconto          “Da Romagnolo a Vimercate”  che Pietro ha scritto, per raccontare la sua vita: ai suoi figli, a Viola la sua nipotina e ai nipoti acquisiti.
Il libro è uno spaccato preciso e puntuale di quei tempi: i mitici anni ‘60; mi piace come ha impostato il racconto perché è come se fosse un’agenda, dove sono appuntati tutti i suoi ricordi, in maniera meticolosa e minuziosa, quasi a non volerne dimenticare nessuno, anche il più insignificante.
Pubblicherò, a puntate, la parte del libro che racconta di Romagnolo e dei Bagni Petrucci.
Buona lettura!

“DA ROMAGNOLO A VIMERCATE”

Premessa
Coi ricordi della mia vita dal ‘46 al ‘60, anno dello spostamento della mia famiglia a Romagnolo (allora zona marinara ed agricola della città), avevo mantenuto la promessa fatta a Totò Borsellino di scrivere qualcosa sulla “Kalsa”.
L’avevo fatto a modo mio, non come un osservatore che descrive chiese, palazzi, strade, vicoli, feste, abitudini, miserie, condivisioni, ma mettendoci dentro la mia vita, per come l’ho vissuta e per come penso che abbiano contribuito a formarmi genitori, scuola, parenti, amici e conoscenti.
Ma se avessi smesso mi sarei fermato a descrivere solo una parte della mia vita a Palermo ed avrei fatto un torto al quartiere di Romagnolo, dove la mia vita non subì scossoni, essendosi qui trasferite oltre un centinaio di famiglie (almeno seicento persone), anzi migliorò per l’integrazione con le persone del luogo avvenuta in pochissimo tempo.
Con questo quartiere il distacco, ancora non avvenuto per avervi dei legami (da mia sorella Antonia alla sorella di mia moglie Annamaria), comincerà col servizio militare, in parte a Roma ed in parte in Sardegna, e col successivo trasferimento post laurea a Vimercate, a quasi 1500 Km da Palermo, dove aveva sede la società Telettra che, assumendomi, mi consentiva di mettere su famiglia.
E’ questo il motivo per cui ho deciso di continuare a scrivere e di titolare quest’altro mio insieme di ricordi “Da Romagnolo a Vimercate”.
Appena mi metto alla scrivania però questo motivo svanisce e scopro quello vero: non morire del tutto ma rimanere vivo, almeno nella memoria dei miei figli e dei miei nipoti diretti ed acquisiti.
E allora devo correre. Non posso lasciare la scrivania ed è con questa premessa scritta di getto che do inizio a quest’altro mio lavoro.
La promessa a Totò Borsellino era stata la goccia d’olio che aveva sbloccato un ingranaggio arrugginito, che per fortuna non si era fermato alla Kalsa ma continuerà a girare. Fino a quando? E chi lo sa!

Capitolo 1.

La vita a Romagnolo
1. La nuova casa e la grande scelta

La nuova casa era in Piazzale Fratelli Sant’Anna 13, al centro di un blocco di tre palazzine uguali numerate 12, 13 e 14. Ci abita ancora mia sorella Antonia.
In ciascuna palazzina c’erano quattro piani, uno dei quali leggermente rialzato (una sessantina di centimetri). C’erano due appartamenti per piano e quindi otto in totale.
Gli appartamenti erano tutti uguali: tre camere (di cui due da letto ed una da pranzo), cucina, bagno e ripostiglio, due balconi e tre finestre. Avevano anche le stesse dimensioni. Quelli a piano terra avevano anche un giardino, di dimensioni decrescenti dal numero 12 al 14.
Casa mia era al primo piano, nello stesso pianerottolo in cui abitava anche la famiglia Alagna; al piano rialzato abitavano le famiglie Romano ed Arrigo; al secondo piano le famiglie Galluzzo e Lo Nano ed al terzo le famiglie Antista e Napoli.
Con una parete della cucina faceva corpo unico una lastra (balata) di marmo, destinata ad appoggiarvi gli accessori per cucinare.

Su tale “balata” di marmo, a causa delle ridotte dimensioni e per lasciare un po’ di spazio almeno ad una pentola e ad un tegame, in casa mia venne appoggiato il fornello a gas, che avevamo già in Via Vetriera, che aveva sostituito un vecchio e glorioso “primus” a gasolio (vedi foto)

[foto Pietro Leto]

che a sua volta aveva preso il posto dell’ancora più vecchio focolare in muratura.
Addossati alla parete opposta c’era un lavatoio (pila) in pietra con annesso scaricatoio (cumuni) dello stesso materiale poggiato per terra ed alto fino alla base del lavatoio.
Sopra la “pila”, un parallelepipedo capiente un centinaio di litri, c’era il rubinetto in rame dell’acqua, mentre su due delle sue facce interne, verticali e parallele, erano scavate due guide per l’inserimento della tavola di legno (u balataru) su cui si faceva il lavaggio a mano.
A fine lavaggio l’acqua sporca passava dalla “pila” al “cumuni” per almeno due volte dopo gli ovvi cambi d’acqua effettuati dal rubinetto a muro sopra il lavatoio.
All’angolo tra la parete d’ingresso e quella della “balata” c’era un contenitore in cemento per la riserva idrica messo in modo da non toccare il soffitto e sostenuto da due ferri a “T” sporgenti dalle pareti.
L’ultima parete aveva la porta e la finestra sul balcone che dava nel piazzale.
Nel bagno c’erano “water”, “lavandino” e “vasca”. Non c’era il “bidet”, che venne aggiunto poi, così come venne aggiunta la lavabiancheria, quando fu possibile fare i primi lavori di ristrutturazione ed eliminare “pila e cumuni”, quando cioè ci furono i soldi per i lavori e l’elettrodomestico, non quando il comune diede il permesso di esecuzione dei lavori, perché nessuno lo chiese.
Le famiglie Galluzzo, Lo Nano, Antista e Napoli abitavano, prima del trasferimento a Romagnolo, nel mio stesso blocco di case (quello compreso tra Via Cannella, Via del Sole, Vicolo Caccamo e Via Francesco Riso), ma mentre a casa mia si entrava da Via Cannella, alle loro case si entrava da Via del Sole, dietro la Chiesa della Sapienza.
Ritornato dalle gare di ginnastica a Catania e dato un aiuto a mia madre a sistemare la casa, ripresi a frequentare la palestra della “Robur”, che si trovava in Via dei Cappuccini ed era raggiungibile da Romagnolo con l’autobus “24” o “25” e comunque facendo un tratto a piedi.
Con me veniva anche mio fratello Tonino, che aveva iniziato a fare lo stesso mio sport.
Lasciavamo l’autobus in Corso Vittorio Emanuele, che percorrevamo a piedi fino a Piazza Indipendenza per poi, dopo Via Colonna Rotta, svoltare in Via dei Cappuccini.
Ed era anche diventato necessario compiere la grande scelta: a quale facoltà universitaria iscrivermi, nonostante le condizioni economiche ancora precarie della mia famiglia.
Sino alla fine del liceo le uniche scelte fatte erano state due.
La prima, e cioè sostenere gli esami di ammissione alla scuola media, era in effetti stata fatta da mia madre ed era stata quella giusta perché consentiva l’accesso ai licei.
La seconda, e cioè la scelta del liceo classico, l’avevo fatta io ed era stata una scelta fatta per non cambiare lingua straniera e con la speranza di potere andare all’università. E la speranza si era avverata!
Mancava solo un mese all’inizio dell’anno accademico. Dovevo sbrigarmi!
Quasi tutti i miei compagni di liceo si iscrissero a Giurisprudenza perché la durata del corso era di soli quattro anni e consentiva di trovare con relativa facilità il “posto fisso”.
In pochi pensavano alla carriera in magistratura, perché era estremamente difficile vincere il concorso, come invece riuscirà prima a Totò e poi a Lino, o alla carriera dell’avvocatura, da Totò ritenuta ancor più difficile della prima (anche da magistrato, mi ripeteva sempre che un buon avvocato era più preparato di un buon magistrato, sconvolgendo le mie credenze).
Giurisprudenza non era per me. Come Totò D’Alfonso, forse per avere visto con lui gli stessi film con avvocati del tipo di Vittorio De Sica, pensavo che il vero sbocco di giurisprudenza fosse l’avvocatura e che per tale professione ci volesse uno “scilinguagnolo sciolto” che io non avevo.
Degli altri compagni di liceo il solo Salvino Coico si era iscritto a Lettere Classiche, mentre Umberto Vitale, Pino Cinà, Francesco Paolo Cascio e Paolo Taormina si erano iscritti a Medicina.
Rimicci smise di studiare e sarà il primo a trovare il posto fisso alla Provincia di Palermo col concorso, mentre Massimo Balletti iniziò a fare il giornalista, non so se iscrivendosi o meno a qualche facoltà.
Io ragazzino avevo sempre pensato di fare l’ingegnere, ma non avevo ancora preso la decisione.
Volevo iscrivermi ad Ingegneria, ma Cinà e Vitale, che frequentai per tutta l’estate, volevano portarmi con loro.
Per convincermi mi dicevano che al primo anno d’ingegneria facevano la “scanna” e che gli anni successivi non erano da meno. E poi i medici, dopo un po’ di gavetta, guadagnavano più degli ingegneri.
E mi avevano quasi convinto!
Ancora però non ero riuscito a vincere la paura di veder scorrere il sangue. Ero rimasto impressionato da quello visto scorrere, per mia colpa, a mio fratello ed a mio cugino.
Ma mi sarei iscritto a Medicina se non fosse successo quanto segue.
Una sera ebbi in palestra un piccolo incidente, che in genere capita a tutti i ginnasti che non indossano i paracalli durante gli esercizi alla sbarra, e cioè lo strappo di un callo dalla mano.
Decisi di prendere l’autobus di ritorno a casa alla stazione centrale dopo essermi fatto disinfettare la mano al pronto soccorso.
E mentre me la spennellavano con la tintura di iodio, vidi entrare un uomo su una lettiga, portata a mano da due operatori della croce rossa, che perdeva sangue dalla testa.
Non aveva nulla di grave, tant’è che il medico disse all’infermiere di sala di rasargli i capelli intorno alla ferita nel mentre che finiva me.
Quando questi impugnò il rasoio e glielo vidi usare, mi parve di rivedere la scena dei pellerossa che levano lo “scalpo” ai nemici.
Qualche giorno dopo mi iscrissi ad Ingegneria senza dire nulla a quelli che per due mesi erano stati miei futuribili colleghi di Medicina.
Li informai solo a cose fatte.

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2. Il contatto con l’università e l’addio alla ginnastica
Ad Ingegneria ritrovai, e non me lo aspettavo per nulla, il mio compagno di liceo Augusto Montante, del quale non avevo saputo più nulla, ed il vecchio compagno di scuola media Lauricella.
Vi trovai anche quattro colleghi di liceo della sezione “C”: Antonio Composto, Salvatore Ferrigno, Fidia Monaco e Salvatore Lo Giudice oltre all’unica donna del corso a cui associo il cognome Puccio (perché nipote della mia ex professoressa di scienze), che sarà costretta a cambiare facoltà perché ai tempi alle donne non era concesso diventare ingegneri.
Ritrovai anche Totò Borsellino, mio sporadico compagno di giochi in Via Vetriera, che non vedevo da quando mi ero trasferito in Via Cannella. Non sapevo che anche lui aveva lasciato la casa di Via Vetriera per trasferirsi in Via Roma.
Come me, Totò aveva fatto gli studi classici, ma al liceo Meli.
Quando l’ho frequentata io, la facoltà di ingegneria era divisa in un biennio di studi comuni ed un triennio di studi specialistici, tre di tipo civile (edile, idraulica e trasporti) e cinque di tipo industriale (meccanica, aeronautica, nucleare, elettrotecnica ed elettronica).
Le materie del biennio erano: Analisi matematica 1, Geometria Analitica, Fisica 1, Chimica, Analisi matematica 2, Fisica 2, Meccanica razionale.
Oltre a queste c’erano altre due materie considerate meno importanti: il Disegno 1 (civile) ed il Disegno 2 (industriale).
L’accesso al triennio veniva bloccato fino a quando non si superavano tutti gli esami del biennio.
Gli iscritti al primo anno d’ingegneria furono molto numerosi, superiori alla capienza di qualsiasi “aula magna” degli istituti di Via Archirafi ed era impossibile frequentare certe lezioni.
Per sostenere gli esami delle materie, a partire dal giugno successivo, era obbligatorio l’attestato di frequenza che, data la difficoltà, si otteneva firmando dei registri ai bidelli.
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Quando iniziarono le prime lezioni, scoprii il significato della parola goliardia, solo quello più negativo però, perché i capi dei goliardi erano i fuori corso di professione.
Bisognava pagare il “papello”, una sorta di lasciapassare per entrare all’università. Figurarsi se uno che non aveva soldi e che proveniva dalla Kalsa poteva sopportare un sopruso del genere.
Non cacciai una lira, anche perché non l’avrebbero trovata neanche a spremermi. Dopo alcuni giorni la lotta coi “papellisti” cessò.
Le lezioni si tenevano di mattina, a parte quelle di disegno seguite dalla realizzazione di disegni tridimensionali e assonometrici.
Iniziai a frequentare sempre più Composto, Ferrigno, Monaco e Lo Giudice. Insieme, data la difficoltà di frequenza delle lezioni mattutine, andavamo alla ricerca di più divertenti alternative.
Ne trovammo una in un piccolo locale di Corso dei Mille munito di bigliardini. Ci andavamo non solo quando non era possibile seguire le lezioni, ma anche quando non ne avevamo voglia.
Nel pomeriggio, alla fine delle ore di disegno, se non dovevo andare a ginnastica, facevo una passeggiata con Composto e Ferrigno da Via Archirafi a Piazza Pretoria, nei cui pressi prendevo l’autobus che mi portava a Romagnolo.
Anche Monaco veniva con noi, ma arrivato all’inizio di Via Oreto ci lasciava abitando in una traversa della stessa.
Alla fine dell’anno il restauro della palestra di Piazza Magione fu completato e quindi ritornai a frequentare un piccolo pezzo del mio amato quartiere, amato nello stesso modo da Totò Borsellino, che una sera entrò in palestra.
Ci eravamo già riconosciuti all’università ma non avevamo avuto l’occasione di fare due chiacchere, per dirci almeno dove abitassimo e perché avessimo scelto la facoltà d’ingegneria.
In palestra non mi ero accorto della sua presenza perché vicino alla porta d’ingresso c’era sempre un gruppetto di persone che stava a
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guardare per capire in cosa consistesse questo sport prima di iscriversi o di iscrivere i loro figli.
Quando smisi il mio esercizio alla sbarra, che tra l’altro era il mio attrezzo preferito, Totò mi si avvicinò dicendomi:
“Sei veramente bravo! Ma da quanto tempo fai ginnastica?”
Quando gli dissi che erano cinque anni e mezzo esclamò:
“Ah!”
Forse voleva iscriversi a ginnastica e mi aveva fatto la domanda per capire cosa questo sport richiedesse.
Alla fine degli allenamenti mi recavo assieme ai colleghi di sport Cottone e Piddini in un piccolo ristorante di Via Firenze (nei pressi di Piazza Bellini) per mangiare un pane e due uova ad occhio di bue, che ci veniva pagato dal maestro Gambaro, il gestore della palestra, per farci irrobustire.
Per mantenere le tradizioni, ad inizio anno ero senza libri, perché la cosa più urgente era stata quella di comprare l’attrezzatura per disegnare: compassiera, due squadre di cui una con entrambi gli angoli acuti da 45° e l’altra con angoli da 30° e da 60°, riga, doppio decimetro ed altri accessori.
Ed occorreva comprare un’attrezzatura di precisione che costava molto. Comprai “Nestler” (il top) per le squadre, la riga ed il doppio decimetro, “Original Werein” (quasi il top) per la compassiera.
Sicuramente avrò detto che non avevo libri a D’Alfonso, col quale mi vedevo il sabato, quando non avevo né ginnastica né disegno.
E lui ne avrà parlato col nostro compagno di liceo Sergio Reyes che già cominciava ad inserirsi nel mondo dei libri.
Collaborava con varie librerie tra cui quella universitaria che si trovava ai Quattro Canti, vendendo per loro conto, anche a rate.
Un giorno mi incontrai con Sergio nei pressi di tale libreria e gli fornii la lista dei libri che mi servivano (sette per un totale di circa 25 mila lire) che ebbi dopo meno di due settimane, ovviamente a rate.
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Spesso quando la sera rientravo a casa, trovavo che i miei fratelli erano andati in casa di vicini ad una delle tante festicciole da ballo organizzate dagli adolescenti e tenute sotto controllo dai genitori.
Se in queste festicciole nasceva qualche simpatia i genitori erano contenti e se questa si trasformava in fidanzamento era meglio ancora.
Mia madre mi diceva che aspettavano anche me e lei avrebbe gradito che io ci andassi, perché aveva forse fatto un pensierino su qualche ragazza che riteneva adatta per me.
Mamma, che aveva forse visto troppi film strappalacrime, temeva di perdermi una volta che io mi fossi laureato perché avrei potuto frequentare un mondo, al quale lei non si sentiva di appartenere.
E sicuramente temeva che potessi imitare il figlio avvocato dello “Zappatore” che si dimentica dei genitori di umili origini.
Ma io non andavo mai a queste festicciole dimostrando così un poco di superbia, che mi poteva rendere antipatico.
I ragazzi pensavano forse che li snobbassi perché ero il solo universitario tra loro, ma si trattava solo di timidezza.
Se non accettavo gli inviti alle festicciole prima, figuriamoci se li potevo accettare dopo questo fatto, che in qualche modo mi aveva toccato.
Intanto a forza di giochi al bigliardino la mattina, esercitazioni di disegno e ginnastica di pomeriggio non avevo ancora dedicato tempo allo studio delle quattro materie “toste” del primo anno.
Senza che me ne rendessi conto avevo avuto bisogno di vivere ancora un po’ di spensierata adolescenza, avendo avuto, pur tra tanti svaghi poveri, troppa maturità nei precedenti anni.
Ero stato troppo libero nel periodo universitario e troppo brusco era stato il salto delle metodologie di studio, dalle possibili interrogazioni quotidiane ad un’unica interrogazione per materia.
Non avevo ancora imparato come si doveva affrontare l’università.
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Cominciai a studiare quindi “Analisi matematica 1” e “Geometria Analitica” ed a fare degli incontri con Monaco, che potevo andare a trovare a casa perché era quello che mi abitava più vicino.
Ma non riuscivo a tenere il suo ritmo, anche perché andavo a ginnastica. Smisi di studiare “Geometria Analitica”.
Al primo appello sostenni l’esame di “Disegno 1” che superai, ma con un voto mediocre.
Al secondo appello mi presentai per fare l’esame di Analisi matematica 1, esame che in genere non si faceva con una prova scritta.
Successe però che il numero di partecipanti fosse talmente alto da richiedere una scrematura proprio con questa prova.
Ed a me capitarono tre esercizi, uno dei quali non seppi svolgere ed un altro svolsi a metà, esercizi che furono controllati dal professor Rizzoni, che mi consigliò di ritornare alla sessione successiva per non partire subito col piede sbagliato.
Mentre facevo la strada a piedi verso casa pensavo che non avrei superato il biennio e che avrei fatto spendere ai miei genitori altri soldi che non avevano.
Mi vergognavo a ritornare casa. Per la prima volta nella mia vita non avevo superato un esame.
Vi arrivai inferocito urlando contro quel professore che mi aveva invece dato un giusto consiglio.
Ci volevano cento persone per calmarmi o come si dice in dialetto:
“Nni vulia a centu pi davanzi”
La mia era una vigliacca sceneggiata per non darmi una colpa che era solo mia.
In un anno non ero riuscito a superare una materia seria!
Mi era piaciuto giocare e fare sport? Ben mi stava. Ma perché per colpa mia dovevano pagare i miei genitori?
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Il giorno dopo andai in palestra a parlare col maestro Gambaro, per dirgli che non potevo più fare ginnastica.
Quando glielo comunicai non disse nulla per dissuadermi, mi abbracciò, mi fece gli auguri e mi chiese di farmi rivedere ogni tanto.
Fu il primo a capire che non ero più ragazzo. Mi allontanai piangendo.
Al posto mio c’era mio fratello che stava per compiere quindici anni.
Cancellai del tutto l’andare al mare coi miei compagni di liceo per porre rimedio alle mie malefatte e pensare solo allo studio, anche perché io non avevo la bicicletta, Pino Cinà doveva sempre più spesso fare trasfusioni di sangue al padre e non si univa più al gruppo ed avevo il mare a due passi.

continua

3. Gli esami di riparazione
Dopo il fallimento dell’esame di “Analisi matematica 1” pensai di prepararne per gli appelli autunnali il maggior numero possibile, ma dovendo approfondire tale materia capii subito che avrei potuto preparare solo l’esame di un’altra sola materia: scelsi “Geometria analitica”.
Mi sarebbe piaciuto fare anche l’esame di “Chimica” o “Fisica 1”, ma erano materie entrambe impegnative: vi avrei dato solo una lettura per ridurre l’impegno per la sessione invernale.
Totò D’Alfonso ed Umberto sapevano che ero in crisi e non mi mollavano. Quando andavano a Ficarazzi a trovare Lino Macchiarella e Gigi Greco passavano a casa mia per salutarmi e incoraggiarmi. Credevano in me più di quanto non credessi io stesso!
Mi raccomandavano sì di studiare ma anche di distrarmi ed andare al mare, che era a pochi passi. Non è che potessi interrompere i rapporti col mondo esterno!
E poi se ne andavano, non potendo Totò portarmi più sulla canna della sua bici. Ormai eravamo adulti, almeno fisicamente.
Io cominciavo a studiare alle sette di mattina, interrompevo intorno alle ore 11, andavo al lido “Petrucci”, a meno di cento metri da casa, ritornavo all’ora di pranzo e dopo aver mangiato e riposato un’oretta riprendevo a studiare e spesso riandavo al mare a godermi il tramonto.
Allo stabilimento entravo sempre di straforo, senza cioè passare per la cassa, finché a stagione inoltrata non riconobbi i miei colleghi di facoltà Totino e Ninetto Di Paola, la cui madre (Ninfa Petrucci) era una delle figlie del fondatore dello stabilimento.
Quando mi chiesero se avessi in affitto una capanna o se fossi lì soltanto per quel giorno e risposi che ero entrato di straforo, mi portarono subito da una loro zia che stava alla cassa e le dissero:
“Zia Pina, questo è un nostro compagno di università. Quando viene, fallo entrare gratis. Abita a Romagnolo.”

La signorina Pina, che allo stabilimento chiamavano soltanto “la signorina”, aveva un occhio di riguardo per i vecchi abitanti del luogo, ma voleva che i nuovi arrivati a Romagnolo pagassero l’ingresso.
Rispose:
“Va bene. Fatelo conoscere pure allo zio Nino, perché alla cassa non ci sono sempre io.”
E così conobbi i primi due fratelli Petrucci.
Il signor Nino era il più giovane di tutti i fratelli, non era ancora sposato ed era l’unico che con la sorella si occupava della gestione dello stabilimento balneare.
Anche se non abitavano più a Romagnolo ma al Villaggio Santa Rosalia (ma vi avevano abitato fino ad alcuni anni prima) fu attraverso i fratelli Di Paola che iniziai le mie nuove amicizie locali.
Avevo conosciuto già qualcuno, ma fino ad allora non mi ero ancora inserito nel nuovo quartiere e come amici locali avevo solo quelli che erano stati trasferiti dalla Kalsa a Romagnolo.
I fratelli Di Paola mi fecero conoscere anche Mario, il fratello più piccolo che aveva appena finito di frequentare il primo anno di liceo scientifico, e due loro cugini Antonello e Giulia Petrucci, i figli del professor Peppino che, oltre ad essere docente di geologia all’università, esercitava anche la libera professione.
Aveva una nuova attrezzatura di sondaggio del terreno, da lui messa a punto, che lo rendeva molto ricercato quando si effettuavano ricerche di falde acquifere e spesso lo aiutava il figlio Antonello.
Conobbi poi i genitori dei miei colleghi Di Paola: il padre, Pietro, che lavorava all’INPS e la madre che era insegnante.
A fine stagione ero pronto per l’esame di “Analisi matematica 1”, avendo ben approfondito i punti in cui ero stato debole nelle sessione precedente, e stavo anche completando lo studio della “Geometria analitica” con Antonio Composto, il più bravo della sezione “C” e di tutto il liceo classico Umberto I (si era diplomato con la media del “nove”, cosa quasi impensabile).

Io ed Antonio ci confrontavamo, vedendoci a casa sua o nella mia, dopo avere studiato ciascuno per proprio conto gli argomenti da trattare nell’incontro.
Mi sarebbe bastato superare queste due materie per pensare di poter ancora recuperare e non sentirmi più deluso.
Arrivò ottobre e mi presentai al primo appello dell’esame di “Analisi matematica 1”.
Feci un’ottima figura ed il professor Cardamone, il docente che mi aveva interrogato e che aveva tenuto il corso, mi fece perfino ripetere davanti ad un suo collega la definizione del “punto di accumulazione” dicendogli:
“Ecco, questo è il modo corretto di dare la definizione di punto di accumulazione.”
Mi promosse con un incoraggiante “26”, ma avrei meritato molto di più. Penso che sia stato il primo dei docenti a farsi influenzare da qualcosa scritto sul libretto, che in quel caso fu il mio mediocre “22” in disegno.
Intanto a Romagnolo stava succedendo un fatto ritenuto molto strano dagli abitanti del luogo.
Cominciavano a vedersi in giro, quasi sempre vicino al mare, topi di fogna, di grossa dimensione.
E gli abitanti del luogo, visto l’aumento degli scarichi fognari effettuati dai nuovi arrivati e quindi dell’alimentazione per i topi, ci dicevano per ridere, ma era la realtà:
“Puru i succi vi purtastivu ‘ra casa!” ossia “Anche i topi vi viete portati da casa!”
Ricordo che una sera all’imbrunire ne vidi una ventina su una montagnola (“muntarozzu”) di terra davanti al lido Petrucci.
Uno di questi topi stava in cima e sembrava guardare verso il basso, gli altri erano distribuiti sulla montagnola e sembravano guardare verso l’alto.

Pensai (e raccontai questa scenetta ovunque ne ebbi la possibilità):
“Talè! C’è un succi ca sta facennu a parrata.” ossia “Guarda! C’è un topo che sta tenendo un discorso (elettorale).”
E dopo una breve guerra coi topi, anzi con uno solo ma mi era sembrato un leone, feci con loro la pace. Ed ecco cosa avvenne.
Mentre stavo studiando sento un urlo provenire dalla cucina. Era mio fratello Tonino.
Stava con una vecchia scopa in mano davanti ad un topo in posizione difensiva, che non sembrava più lungo di 10 cm, ma che aveva una coda più lunga del corpo.
Presi allora il bastone dello straccio (u vastuni ru cannavazzu) che stava vicino al lavatoio e cercai di assestargli un colpo, ma non lo beccai. Il topo scappò mostrandoci le sue effettive dimensioni.
Era una pantegana di fogna che ci terrorizzò facendocelo apparire come un coniglio!
In quella stanza non si capiva chi avesse più paura, se il topo o io e mio fratello, ma riuscimmo a fermare il topastro vicino al buttatoio, o meglio ci arrivò lui da solo perché voleva entrare nello stesso buco da cui era uscito e noi gli avevamo impedito di farlo.
In un lampo io e mio fratello decidemmo di non ammazzarlo più ed anzi lo aiutammo ad entrare nel buco del buttatoio, il cui tappo era messo di traverso.
Al secondo appello mi iscrissi all’esame di Geometria Analitica assieme ad Antonio Composto, ma l’appello veniva rimandato di continuo, perché il professor Mazzarella era anche docente di Scienza delle Costruzioni e faceva gli esami un po’ agli uni ed un po’ agli altri.
Di lui si era terrorizzati, perché era capace di bocciare uno di seguito all’altro decine di studenti su uno stesso quesito, finché a questo non veniva data la risposta che lui si attendeva, cosa che capitò nella serata in cui avremmo forse potuto fare l’esame sia io che Antonio, ma in lista avevamo davanti una ventina di studenti.

Dopo avere promosso qualcuno ed invitato a ripresentarsi qualche altro, per il successivo studente in ordine di lista fece un disegno alla lavagna di cui ancora ricordo qualcosa.
Disegnò una linea orizzontale, una circonferenza a cui la linea era tangente ed un’altra linea inclinata ed ancora tangente alla circonferenza. Non ricordo se indicò sulla figura qualcos’altro (forse un valore trigonometrico) e quale domanda fece allo studente (forse l’equazione della tangente al cerchio).
Questo non seppe rispondere e venne invitato a ripresentarsi. Chiamò il successivo e fece la stessa domanda ed anche questo non rispose e subì la stessa sorte. Il processo si reiterò per un’altra decina di volte finché non fu chiamato Antonio Composto, che svolse con facilità il problema, mostrando anche estrema sicurezza.
Dopo qualche altra domanda fu promosso con “trenta e lode”.
Venne quindi il mio turno. Mi fece una serie di domande alle quali tutte risposi, ma fui promosso solo con “24”. Mi dispiaceva per il voto medio preso, ma essendo interessato a superare gli esami più che ai voti, fui felice di aver portato a casa un altro risultato positivo.
Superati entrambi gli esami, appena mi fu possibile, andai in palestra a comunicare la cosa al professor Gambaro, che ovviamente era stato messo al corrente da mio fratello.
Non ricordo quanto fosse costata l’iscrizione al secondo anno appena fatta. Me ne diede i soldi come se fosse stato mio nonno.

continua

4. La prima festicciola e l’innamoramento vero
Non dovrei dirlo, ma ero un poco invidioso di come andavano negli studi i miei compagni di liceo. Erano diventati tutti più bravi di me.
I trenta con o senza lode o comunque voti a questi molto vicini fioccavano nei loro libretti, mentre io prendevo voti discreti se non addirittura mediocri.
Cominciai a provare sulla mia pelle in che modo ad ingegneria facevano la “scanna”, ma io ero duro a morire.
E per dimostrarlo ogni volta che superavo un esame ne informavo D’Alfonso che informava Lino, Stefano, Armando e qualche altro, mentre Pino ed Umberto li informavo io stesso avendo l’opportunità di incontrarli in Via Archirafi.
Delle materie dell’anno mi rimanevano da studiare Chimica e Fisica 1. Scelsi di studiare la prima e darne l’esame a febbraio del ’62.
Alla seconda avrei dato solo una lettura per sostenerne l’esame al primo appello del giugno dopo.
Quando Totò D’Alfonso si liberò delle materie del suo primo anno di “giurisprudenza” venne a trovarmi a casa.
Nei nostri discorsi venne fuori che era intenzionato a comprarsi una bicicletta col cambio e che, se volevo, potevo riprendermi la sua per una modesta cifra, che gli avrei dato quando l’avessi avuta.
Ripresi la bici, che Totò aveva mantenuto in buono stato, per quattromila lire.
Pensai che avrei potuto guadagnare questi soldi nel periodo natalizio, lavorando proprio con la bicicletta a consegnare, assieme al mio amico Angelino Sampino, i fiori che venivano venduti nel negozio l’Amaryllis presso il quale lavorava il padre.
Come detto in precedenza, in estate avevo cominciato a frequentare i fratelli Di Paola ed Antonello Petrucci.
Con Totino stava però nascendo un rapporto più profondo.
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Un giorno mi venne a trovare a casa, dopo avere accompagnato la madre da qualcuno dei suoi fratelli.
Fu il primo di una serie d’incontri dopo il quale cominciammo a frequentarci sempre più spesso.
Veniva sempre lui a trovarmi ed in genere andavamo a fare una passeggiata, durante la quale chiacchieravamo e ci confidavamo l’un l’altro qualche piccolo segreto, ci fumavamo qualche sigaretta e poi ci lasciavamo.
Talvolta Totino poteva apparire un po’ strano, stranezza che denunciava il bisogno di uno con cui potersi confidare, cosa della quale avevo bisogno anch’io.
Avevo percepito che lo studio non fosse il suo lato forte e che ne soffrisse perché il fratello gli veniva additato, sicuramente dalla madre, come più bravo. Ma era generoso, virtù che scoprirò successivamente anche nel padre e nei fratelli.
Si era intanto trasferita a Romagnolo, nella palazzina al numero 12 adiacente alla mia, la famiglia di quelle due belle bambine, Ina e Giovanna, che giocavano con mia sorella nella scala della casa di Via Cannella. Ma le bambine non erano più tali. Una, Giovanna, si era già fidanzata ufficialmente.
Erano andate ad abitare nella casa al piano terra in cui, quando arrivai a Romagnolo, stava un dipendente comunale che non aveva nella zona né parenti né amici. Anche la famiglia di Ina si trovava nella sua stessa condizione, senza amici e parenti, abitando nelle case popolari del quartiere “Noce”.
Non so chi abbia preso l’iniziativa per farli incontrare e vedere se era possibile fare uno scambio di casa.
Si misero d’accordo e dato che entrambi gli appartamenti erano di proprietà del comune e che uno degli attori ne era dipendente lo scambio fu possibile.
Cominciai a vedere Ina sempre più spesso, ma neanche ci salutavamo. Non ero mai andato alle festicciole e non poteva farlo lei per prima!
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Non sapeva che pesce fossi. Lei invece aveva almeno una dote. Era così bella! A mia madre piaceva un sacco. Ma ancor di più piaceva a me, che cominciavo a pensare sempre più intensamente a lei.
Gianni Alagna mi dava sue notizie, pur non avendole mai richieste, perché aveva capito che ero interessato a lei. Mi diceva che durante le loro festicciole non si faceva corteggiare e pertanto le venivano attribuiti altri corteggiatori.
D’altronde non poteva non averne, data la sua sfolgorante bellezza di sedicenne!
Ed io continuavo a non andare alle festicciole per paura di essere rifiutato come gli altri quando avessi cominciato a corteggiarla.
Per farmi partecipare alle festicciole e con la scusa che era arrivato il turno della nostra casa ne organizzarono una a cui non mi fu possibile trovare scuse, a meno che non andassi a dormire altrove.
La tennero verso a fine novembre del 1961, nel periodo prenatalizio.
E quando vidi Ina fu per me un colpo di fulmine, non uno dei miei soliti innamoramenti. Fu quello vero!
In un attimo decisi che Ina sarebbe stata mia moglie. Ma questo non dipendeva solo da me.
Quella prima volta mi toccò fare il cavaliere un po’ con tutte le ragazze, ma cercai di fare quanti più balli possibili con lei.
Non le dissi nulla però su quello che provavo né sulle mie intenzioni.
Pensavo di conquistarla organizzando una festicciola dietro l’altra e facendo terra bruciata intorno a lei, invitandola a ballare così spesso da apparire una coppia fissa o quasi.
In questo modo i miei amici avevano capito che le mie intenzioni erano serie e che nessuno poteva corteggiarla per passatempo.
Essendo certo che lei si fosse resa conto delle mie intenzioni, per me era come se le avessi dichiarato il mio amore ed ero così sicuro che quasi quasi mi aspettavo che dovesse essere lei a dirmi che mi considerava il suo ragazzo.
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Durante una delle sue frequenti visite Totino mi invitò a fare una partita a poker con lui, il fratello ed il padre in casa di sua zia Pina. Avremmo fatto la partita la vigila di Natale, di pomeriggio, allorché i suoi genitori sarebbero venuti a fare gli auguri a sua zia.
Accettai sapendo di poter contare sui soldi già guadagnati col lavoro di “fattorino” dei fiori. Ero vicino a raggiungere la cifra per pagare la bicicletta a Totò. Promisi a me stesso di non giocarmi più di qualche centinaio di lire. Feci così, andai a giocare e vinsi duemila lire.
Passato il periodo natalizio e facendosi le festicciole solo il sabato, accelerai lo studio della Chimica, per il cui esame scelsi il secondo appello della sessione di febbraio per avere più tempo a disposizione.
All’appello si iscrisse anche Antonio Composto, ma questa volta lui si mise quasi a fine lista, dopo di me. Quando arrivò il mio turno mi toccò sostenere l’esame con un assistente del professor Indovina, che nello stesso tempo stava esaminando un altro.
L’assistente rimase contento del mio esame, poi confabulò un po’ col professor Indovina ed alla fine mi chiese se mi bastava “25” o preferivo una domanda dal professore.
Temendo che mi potesse chiedere chissà che cosa, invece di accettare la domanda per avere un voto più alto, risposi che andava bene.
Antonio Composto, che aveva assistito al mio esame, appena usciti, mi disse che lui avrebbe chiesto la domanda suppletiva.
Mi disse anche di non sentirsi ancora sicuro per l’esame e che forse non l’avrebbe più fatto rimandandolo a giugno.
Dopo un paio di giorni ci rivedemmo alla lezione di “Analisi matematica 2”. Mi comunicò che aveva invece dato l’esame e che l’aveva superato con “trenta e lode”.
Non so come facesse, i suoi voti erano sempre altissimi. Ma lui era Ribot, un cavallo di razza!
Ma i cavalli di razza vogliono anche le attenzioni dei loro allenatori, non solo le prestazioni! Ho capito questo però solo molto tempo dopo.

continua

5. Lo studio con Ninetto e le lezioni a Luigi Giuffrè
Dopo aver superato l’esame di Chimica, mi venne a trovare Totino Di Paola che mi chiese di prestargli il libretto universitario per farlo vedere alla madre, che non credeva che avessi potuto dare queste tre materie in due sessioni.
Voleva forse dimostrarle che anche lui avrebbe potuto recuperare, visto che era molto indietro con gli esami.
Glielo diedi per ricambiare la cortesia dell’ingresso gratuito nello stabilimento balneare.
La mia media non era un granché (appena al di sopra di “24”), ma la madre la ritenne buona e suggerì ai figli di chiedermi se volevo studiare con loro.
Ma Totino era rimasto indietro e quindi potevo studiare solo con Ninetto che tra l’altro aveva una buona media.
Avendo avuto fino a quel momento colleghi saltuari, accettai e cominciai a frequentare casa Di Paola.
Fui accolto con molta simpatia sia dal padre, Pietro, che cominciò a considerarmi più che un amico dei figli e dal fratello minore Mario, che divenne un altro mio amico, anche se ci separavano quattro anni.
Io dovevo ancora sostenere l’esame di “Fisica 1”, lui uno diverso (forse quello di Chimica).
Decidemmo di studiare queste materie ciascuno per proprio conto e darne gli esami al primo appello della sessione estiva. Avremmo invece studiato insieme “Analisi matematica 2” per darne l’esame al secondo appello della sessione estiva, “Fisica 2” per la sessione autunnale e “Meccanica Razionale” per la sessione invernale.
L’esame di “Disegno 2” non lo consideravamo neanche.
Iniziammo quindi a studiare assieme nei pomeriggi in cui non avevamo esercitazioni.
Anche se ero io ad andare a studiare in casa di Ninetto, capitava ogni tanto l’inverso o che mi venisse a trovare Totino.

Di conseguenza anche i fratelli Di Paola conobbero i miei genitori, mia sorella, mio fratello ed il mio amico Gianni Alagna.
Appena iniziato lo studio con Ninetto fui contattato da Mario Giuffrè, che mi chiese se potevo aiutare il fratello Luigi, espulso dai licei pubblici di Palermo perché aveva tirato qualcosa ad un professore, nella preparazione degli esami di maturità classica.
Avrebbe potuto frequentare un liceo privato, ma lui non voleva più frequentare scuole e voleva sostenere gli esami di maturità.
Gli avrei dovuto dare lezioni di latino, greco e qualche materia scientifica dietro compenso, che neanche ricordo quanto fosse.
Ancora una volta, invece di pensare ai miei studi, per guadagnare un po’ di soldi mi resi disponibile, ma dissi a Mario che volevo prima conoscere il fratello per saggiarne la preparazione.
Andai in casa Giuffrè, in Via Trapani 9, e conobbi Luigi. Gli feci qualche domanda e constatai che aveva delle discrete basi. Era difficile che ce la potesse fare, ma comunque si poteva tentare perché gli esami si sostenevano di nuovo sulle sole materie dell’ultimo anno.
Conobbi poi la loro mamma e forse accettai di aiutare il figlio per il fatto di averla vista a lutto perché vedova.
Posi però la condizione che le ore da dedicare alle lezioni fossero decise da me, dovendole sottrarre alla frequenza universitaria delle materie del secondo anno.
Con Luigi, che era intelligentissimo, ci fu subito reciproca intesa. I due fratelli erano uno l’opposto dell’altro: tanto Mario appariva timido e schivo quanto Luigi era estroverso ed esuberante.
Aveva il complesso delle orecchie a sventola e spesso si faceva trovare con una benda tra fronte e nuca, che gliele schiacciava sulle pareti laterali della testa.
Talvolta faceva un po’ il matto, volendosi forse vendicare di qualche mio rimprovero. Un giorno mi lasciò nella stanza in cui facevamo lezione dicendomi che andava lui a preparare la cioccolata, che abitualmente ci preparava sua madre.
Nelle tazze che portò c’era tanta acqua ma poco cacao. Ne aveva forse messo un cucchiaio per tazza e mancava anche lo zucchero.
Lui bevve il contenuto della sua tazza come se niente fosse ed anche io bevvi quell’acqua “ri purpu” (di polpo), che fu la peggior cioccolata che abbia mai bevuto nella mia vita, senza alcun cenno di disgusto.
Cercai di trasferire a Luigi il meglio delle mie conoscenze nelle materie in cui lo aiutavo e le ore che gli dedicai furono tante e tutte sottratte alla frequenza delle lezioni di Fisica 2 e Meccanica razionale ed allo studio di Fisica 1.
Poi, a fine maggio, fui costretto a lasciarlo, perché qualche settimana dopo sarebbero iniziati i miei esami.
E quando iniziai a dare le lezioni a Luigi non vidi più Ina per almeno due settimane.
Era partita col padre, che assieme ad uno dei fratelli Spatafora si stava recando nella città partenopea per inaugurare un nuovo negozio di calzature. Il padre aveva iniziato a lavorare con la ditta Spatafora nel dopoguerra ed era vicedirettore del negozio di Piazza Marchese di Regalmici.
Non chiedete però ai palermitani dove si trova questa piazza, perché non la conosce nessuno, pur essendo il centro del salotto di Palermo in quanto è all’incrocio tra Via Ruggero Settimo e Via Mariano Stabile.
Tutti la conoscono come “Quattro canti di campagna” in contrappo-sizione ai “Quattro canti di città” (o semplicemente “Quattro canti”, incrocio tra Via Maqueda e Corso Vittorio Emanuele).
Il padre era uno dei migliori vetrinisti di Palermo (ed a fine carriera gli sarà conferito anche il titolo di “Maestro del lavoro” rilasciato dal Presidente della Repubblica) e proprio per la sua bravura gli era stato affidato il compito di approntare le vetrine nel negozio di calzature che si doveva inaugurare nella zona centrale della città di Napoli.
Quando Ina seppe che il padre doveva partire volle andarci pure lei; sarebbe andata ad abitare presso alcuni lontani parenti che di tanto in tanto venivano a Palermo ospiti della famiglia di Francesco Farina.

Ed al ritorno vi furono vari incontri tra lei e le altre ragazze che volevano farsi raccontare cosa avesse fatto a Napoli.
Raccontò che sin dalla partenza lei e il padre, un tipo molto giovanile che dimostrava meno dei suoi 43 anni, erano scambiati per sposi e non venivano creduti quando dicevano di essere padre e figlia.
Disse poi di aver partecipato a tante feste da ballo ma più ricche, che finalmente aveva imparato a ballare il “twist” e che un ragazzo napoletano si era innamorato di lei dichiarandosi pronto a sposarla.
Con Ninetto studiavo, ed era un buon compagno di studi, a casa sua, in genere nel pomeriggio. Era l’opposto di Totino, mostrava più interesse per lo studio ed era anche caratterialmente più tranquillo.
La sera tornavo abbastanza tardi, perché facevo la strada verso casa a piedi. Se trovavo i miei che stavano mangiando in cucina mi aggregavo a loro, se già avevano finito di cenare mangiavo da solo.
Una sera, oltre ai miei, trovai in casa Ina, che stava vedendo la televisione nella stanza in cui facevamo le festicciole. Mia sorella e mia madre stavano rassettando la cucina.
Prima le dissi: “Ah! sei ritornata”. Poi la salutai con un “ciao” molto freddo, per farle capire che non avevo gradito il suo viaggio a Napoli.
Lei rispose al mio saluto e mi disse qualcos’altro che neanche ricordo, tanto ero emozionato per la sua presenza in casa mia. Non le chiesi neanche come mai si trovasse in quella stanza a vedere la televisione da sola. Ero felice di trovarla in casa mia, forse aveva trovato una scusa per venirmi a salutare.
Ma invece di comunicarle la mia felicità facevo l’offeso.
Ma che diritto avevo? Chi ero per lei? Non le avevo neanche fatto la dichiarazione d’amore!
Presi una scusa qualunque per ritardare la cena stando il più possibile a vedere con lei la televisione, nella camera illuminata solo da questa, ma senza spiccicare una sola parola.
Poi la stanza si riempì coi miei ed io mi recai in cucina a cenare.

continua

6. L’antenato di Ina ed il superamento del biennio
Ma chi erano questi lontani parenti di Napoli da cui Ina era andata ad abitare? Come mai esisteva questa lontana parentela?
Per cominciare occorre dire che la parentela era con la madre e quindi coi La Mattina.
Bisogna partire da lontano e andare indietro fino alla Spedizione dei Mille del 1860, allorché Garibaldi entra a Palermo.
Tra i tanti “picciotti” che gli vanno al seguito, più per fame che per desiderio di un’unica patria, c’è un ventenne di nome Filippo La Mattina.
Dopo essere stato al suo seguito, essersi fatto varie battaglie (tra le quali Milazzo e l’assedio di Capua) ed aver assistito alla consegna del meridione d’Italia al re di Savoia, venne congedato con un grazie, qualche moneta ed il foglio di congedo, che è a casa mia perché mia moglie è riuscita ad averlo per se.
Sulla strada di ritorno s’imbatte in qualcuno che gli tiene compagnia durante il viaggio e che litiga in una taverna con un altro ancora accoltellandolo a morte.
L’accoltellatore scappa ed al suo posto viene accusato Filippo che non è in grado di difendersi e che quindi viene condannato e portato a Ventotene, dove i carcerati sono anche liberi di muoversi.
E’ un ragazzo alto e belloccio che viene notato dalla figlia (Luisa Capasso) del direttore del carcere, alla quale può rispondere soltanto con sguardi e sorrisi.
L’accoltellatore dopo alcuni anni, sotto confessione ed in punto di morte (nessuno dei parenti di Ina sa come), scagiona Filippo che viene scarcerato e chiede in sposa Luisa, invece di tornare a Palermo.
Filippo e Luisa si sposano e si trasferiscono a Napoli, la città del suocero. Luisa mette al mondo cinque figli (Emanuele, Nino, Vincenzo, Giacinta e Candida) e poi muore.
Filippo rimane solo coi cinque figli, chi adolescente e chi bambino.

E’ benestante e dopo qualche anno, decide di tornare a Palermo, dove i parenti gli procurano una nuova moglie (Benedetta Tobia), con la quale mette al mondo altri cinque figli (Antonio, Giuseppe, Michele, Luisa e Giovanna).

Antonio La Mattina è il nonno materno di Ina, la sorella Giovanna è l’ultima delle figlie del “picciotto” ed è quindi prozia di Ina.
Giovanna La Mattina morirà nel 1979, dopo 119 anni dalla partenza da Palermo del padre, “picciotto” partito con la speranza di vedere migliorate le condizioni nel “Sud”, cresciuto sì ma con allargamento della forbice rispetto al Nord.
A Napoli c’erano quindi soltanto eredi di zii e cugini del nonno materno di mia moglie.
L’esame di Fisica 1, che diedi al primo appello di giugno, avvenne con due prove, una scritta ed una orale.
Feci benino lo scritto ed ero terrorizzato di dover fare l’orale col professor Palma o con la moglie. Tra gli studenti si vociferava che, se ti fosse capitato di fare l’esame con loro, la fine più probabile sarebbe stata la bocciatura.
La sostenni col professor Santangelo che aveva tenuto il corso e che, dopo una prova da me ritenuta buona, mi promosse con “22” e come in altri esami non feci nulla per cercare di farmi alzare il voto.
Era una materia in meno che mi consentiva di poter “sbiennare” in tempo se fossi riuscito a superare anche l’esame di “Analisi matematica 2” al secondo appello.
Anche Ninetto superò il suo l’esame e visto che “Analisi matematica 2” l’avevamo studiata tutto l’anno decidemmo che potevamo farci ciascuno per proprio conto i ripassi finali prima degli esami.
Per i miei amici di festicciole la scuola era finita e quindi non vedevano l’ora di ricominciare ad organizzarne altre.
La prima fu tenuta da Gianni Alagna in occasione della sua promozione dal quarto al quinto anno dell’ITI, alla quale avevo dato un mio piccolo contributo in italiano scritto, in cui era un po’ carente.
Durante i suoi studi aveva perso un anno scolastico e temeva che potesse perderne un altro ancora a causa di questa deficienza, per cui mi chiese di dargli una mano e fargli, perché lo copiasse, l’ultimo dei temi che avrebbe dovuto svolgere in classe.

Il sistema che escogitò, che dire truffaldino è poco, si basava sul fatto che nella sua scuola, frequentata da circa millecinquecento studenti, si entrava e si usciva a tutte le ore.
Mi disse:
“Tu entra all’ora del tema come uno studente qualsiasi e vattene in bagno. Ti raggiungerò lì e ti darò il titolo del tema. Lo andrai a svolgere fuori e me lo riporterai all’ultima ora.”
Cercai in tutti i modi di dissuaderlo dal fare quello che mi aveva proposto, perché non lo avrebbero mai rimandato.
Anche se avesse preso quattro allo scritto, col voto che aveva all’orale sarebbe stato molto vicino alla sufficienza e non lo avrebbero mai rimandato, anche perché in tutte le altre materie andava bene.
Vista la sua paura e la sua insistenza accettai e ad essere truffaldino non fu solo lui, lo fui anch’io.
Feci come mi aveva detto, ma a portarmi il titolo del tema non venne lui bensì un suo compagno di classe, che già conoscevo. Me ne andai al “Giardino Inglese” e glielo preparai. All’ultima ora Gianni venne a ritirare lo svolgimento.
Partecipai alla sua festa così come a tutte quelle successive, nonostante dovessi studiare per l’esame di “Analisi matematica 2”, sia perché c’era Ina sia perché si tenevano di sera e non mi toglievano tempo allo studio.
A queste feste rientrò Giovanna e cominciarono a partecipare anche altri ragazzi, compagni di classe o di scuola di Gianni, tra cui Vittorio Costantino.
Poi ne tenni due io, una in occasione del superamento del mio esame di “Fisica 1” ed un’altra in occasione del mio compleanno (il 6 di luglio), ma certamente prima dell’esame di “Analisi matematica 2” ce ne furono delle altre.
Continuai a corteggiare Ina in modo sempre più serrato, ma non le dichiarai mai che volevo fidanzarmi con lei per la solita paura di essere respinto.

Pensavo che, se fosse stata interessata a me, avrebbe potuto aspettare la mia dichiarazione senza necessità di un impegno tra le famiglie.
Molti miei compagni di università avevano le ragazze e fuori di casa potevano frequentarle senza problemi.
Pensavo che potesse essere lo stesso anche per noi, che vivevamo però in un mondo diverso, dove le ragazze si potevano frequentare solo col fidanzamento e sotto controllo.
Durante le festicciole monopolizzavo i balli con lei che, per stuzzicarmi, mi diceva che ero “la brutta copia di Adriano Celentano”, mentre io le rispondevo che ero invece “Il bel Sergio” (avevo visto nella vetrina di una libreria un libro con questo titolo, ma non sapevo né chi fosse Sergio né che il libro fosse stato tratto da un film).
Avevamo una nostra canzone, “Il cielo in una stanza”, e ballavamo tanti “lenti” e quasi tutti i “twist”, che anch’io ballavo bene.
Intorno alla metà di Luglio sostenni l’esame di Analisi matematica 2 col professor Mignosi. Io fui promosso con “25”, il voto che mi sarei dato io stesso.
Per festeggiare, quella sera ci fu ancora una festicciola da ballo con patatine, dolcetti e gassose che stupidamente stappavo coi denti.
Avevo raggiunto l’obiettivo che mi ero prefissato. Rimanere con due sole materie “toste” alla fine della sessione estiva del secondo anno. Avrei potuto darne una ad ottobre e l’altra a febbraio assieme a Disegno 2.
Ora mi potevo rilassare per alcune settimane tra bagni al lido Petrucci, festicciole ed incontri coi miei ex compagni di liceo. Avrei anche studiato un poco di “Fisica 2” quando non avessi avuto altro da fare.
Trascorsi quasi un mese in questo modo ed al lido Petrucci conobbi altri due cugini dei fratelli Di Paola, Tony (un modo diverso di dire Ninetto ed Antonello) e Giulia (omonima della sorella di Antonello), figli del professor Natale Petrucci.

Feci anche qualche bagno coi miei vecchi compagni di scuola, ma furono questi talmente sporadici che non si ritrovano mie foto con loro in tale periodo mentre ci sono foto tra Totò, Umberto e Lino.

Eppure avevo la mia bicicletta e quindi l’assenza di Pino Cinà con la sua macchina non mi pesava, ma quell’anno avevo altri interessi.
Ricordo che una volta, invece di andare a Mongerbino, che era diventata la sede più frequentata, decidemmo di allungare il percorso andando a fare i bagni a Termini Imerese.
Al ritorno però fu una sfacchinata incredibile ed a Termine Imerese non ci andammo più. Nonostante fossimo giovani, nei pressi di Trabia, dove c’erano dei piccoli tratti in salita, io ed Umberto eravamo con la lingua di fuori.
Con le festicciole andammo avanti per quasi tutto agosto fino alla partenza per Genova dei miei parenti. E per tutto il tempo non ebbi mai il coraggio di dichiararmi ad Ina.
E mentre mi arrovellavo in questo mio dilemma nel mese di settembre i miei amici Totò D’alfonso, Lino Macchiarella e Gigi Greco andavano a girarsi l’Italia nelle città d’arte.
In questa foto a Firenze ci sono Gigi (a sinistra) e Lino

 

continua
7. Il fidanzamento con Ina
A settembre, a causa di questo mio arrovellamento nel dichiararmi ad Ina, avvenne un qualcosa che incrinò i miei rapporti con lei e le feste da ballo furono di conseguenza interrotte.
I due mesi successivi furono i peggiori che un innamorato possa trascorrere ed in questo periodo certamente mi aiutarono Totino e Ninetto Di Paola.
Col primo parlavo dei miei problemi e lui parlava con me dei suoi, col secondo studiavo “Fisica 2”.
Ancora oggi mi chiedo come feci a studiare questa materia ed a sostenere ad ottobre il relativo esame, che feci col professor Montalto (invece che col professor Sinagra che aveva tenuto il corso) e che passai con un miserabile “venti”, accettato senza chiederne le motivazioni.
Avevo ancora da sostenere l’esame di “Meccanica Razionale” e di “Disegno di Macchine” e mi rimaneva la sola sessione di febbraio.
Anche Ninetto superò l’esame ed entrambi, trascinati da altri colleghi, ci iscrivemmo (con riserva perché avremmo ancora dovuto superare i due suddetti esami) ad “Elettronica”, facoltà che era stata aperta l’anno precedente.
Non appena iniziai a frequentare le lezioni del terzo anno, che si tenevano tutte in via Maqueda in quello che era il vecchio convento della Martorana, mi resi conto che a distanza non vedevo bene.
Avevo portato gli occhiali per la miopia durante il periodo iniziale del ginnasio ma non ricordo neanche per quanto tempo.
Mi mancava poco più di un grado e avrei dovuto portarli per non peggiorare la vista. Ma a me non piaceva perché quando li indossavo mi sentivo “diverso”.
Ed allora li mettevo e li toglievo e se strizzavo gli occhi ci vedevo.
La prima volta che mi caddero per terra e si ruppero non li portai più e così diventai miope di ben tre gradi per occhio.
Fui costretto all’acquisto di un nuovo paio di occhiali da portare sempre per non rovinare ulteriormente la vista e le lenti avevano già un discreto spessore.
Scelsi una delle montature che allora andava per la maggiore, quella che portavano Peppino Di Capri e Gino Paoli, una spessa montatura nera di plastica e con le stanghette laterali molto spesse.
Io misi gli occhiali, ma chi li aveva messi prima di me era stata Ina ed erano stati occhiali che le avevano permesso di guardare dentro al suo cuore. Si era accorta che era innamorata di me e che lo era da tempo, ma se ne era resa conto proprio perché non le stavo più intorno. E me lo voleva comunicare.
Conosceva all’incirca l’orario in cui andavo da Ninetto e quello del ritorno e quindi si doveva casualmente far trovare in un posto dove potessi vederla, ma rimanendo a casa sua.
E riusciva a trovarsi dalla parte giusta quando passavo sotto casa sua.
Mi accertai prima che non fosse un fatto casuale e provai a passare diverse volte da un lato o dall’altro della casa.
Mi resi conto che non era un caso e ne fui felice ed allora cominciai ad andare in chiesa la domenica per farle vedere che anch’io la cercavo.
Mi mettevo sempre in piedi, dopo le ultime file e lei si girava a cercarmi. E quando i nostri sguardi si incrociavano sembrava dirmi:
“Ma che aspetti a dichiararti?”
Qualche amica, per sottolineare che ero un bel ragazzo, le diceva:
“Ma guarda come stanno bene gli occhiali a Pierino!”
Aspettava che facessi il gran passo, ma come potevo dichiararmi se ancora non ero certo di superare almeno il biennio?
A febbraio sostenni prima l’esame di “Meccanica Razionale” (con un assistente del professor Gugino) e poi quello di “Disegno di Macchine” (col professor Di Benedetto) passandoli entrambi.
Qualche giorno dopo preparai un biglietto, il più anonimo possibile, con la scritta in stampatello e senza firma:
“Fammi sapere quali sono i tuoi sentimenti nei miei confronti.”
Quando una sera ebbi l’occasione di vederla (era nel giardino di casa sua ad aspettare che passassi), lo avvolsi in una pietra e glielo lanciai senza neanche aspettare che lo leggesse.
Mi ero finalmente deciso al grande passo! E che azione eroica avevo compiuto: un lancio con fuga ed un biglietto anonimo. Mia moglie lo conserva ancora ed ogni tanto, a ragione, mi prende in giro.
Il giorno dopo Ina si fece trovare alla finestra che dava sul piazzale d’ingresso e mi disse di ritornare lì dopo cena.
Feci come lei mi aveva detto e dopo un po’ di preamboli consistenti in “ma perché non me l’hai detto prima”, e “ma tu l’avevi capito” ed ancora “ma non potevo essere io da donna a fare il primo passo”, constatai che il piazzale era al buio e che sul muro c’era uno zoccolo di cemento che mi permetteva di avvicinarmi a lei.
Le chiesi un bacio e quando melo diede mi parve di toccare il cielo. Era la prima volta che baciavo una ragazza. Non immaginavo che si potessero provare simili sensazioni!
Subito le promisi che avrei mandato quanto prima i miei genitori per chiederla in matrimonio e così poterla frequentare; in siciliano si dice:
“Pi spiari u matrimoniu”.
Quando ne parlai con mia madre, lei fu prima un po’ titubante, perché temeva che potesse causare un ritardo nei miei studi, ma dopo un poco si convinse, anche perché desiderava per me una ragazza come Ina.
Ne parlò con mio padre e dopo qualche settimana andarono dai genitori di Ina.
Non ho la più pallida idea di cosa si siano detti, ma penso che abbiano fatto solo discorsi relativi ai miei studi, quanto avrei impiegato a laurearmi etc…
I genitori di Ina, che ovviamente non ebbero nulla in contrario, posero una sola condizione: avrei potuto frequentare la figlia solo dopo il matrimonio della sorella, che era comunque imminente.
Quando i miei genitori me lo comunicarono non feci una piega, tanto con Ina ci saremmo sempre visti di sera, come la prima volta.
Tutti sapevano nei dintorni che io ed Ina eravamo “promessi sposi” e che non potevo andare a casa sua perché si stava per celebrare un altro matrimonio ed i genitori erano impegnati nei preparativi.
Il mio barbiere Rosario, quando andavo a tagliare i capelli, mi diceva:
“E bravu, ‘ncigneri, t’a pigghiasti a ‘chiù bedda ‘i Rumagnolu!”
Cioè:
“E bravo, ingegnere, te la sei presa la più bella di Romagnolo!”

continua

Il terzo anno d’ingegneria
Le materie del terzo anno per gli ingegneri elettronici erano: “Fisica Tecnica”, “Meccanica e Macchine”, “Scienza delle Costruzioni”, “Metallurgia e Metallografia” “Elettrotecnica” e “Componenti elettronici”.
Per “Elettrotecnica” c’erano da svolgere esercizi sulle reti elettriche, per “Meccanica” c’erano da costruire le curve di cicloide, epicicloide e cardioide, i corretti profili degli ingranaggi per non avere strisciamenti, etc…
Queste materie, a parte “Componenti elettronici”, erano comuni a tutti gli indirizzi industriali.
“Fisica Tecnica” e “Meccanica e Macchine” erano considerate due “mattoni” per la grande quantità di contenuti tant’è che, per facilitarne gli esami, ciascuna di esse era spezzata in due parti che venivano esaminate separatamente.
Esisteva una piccola differenza però: se si voleva, l’esame di “Fisica Tecnica” poteva essere sostenuto sull’intera materia, mentre per “Meccanica e Macchine” occorreva in ogni caso sostenere prima l’esame di “Meccanica” e poi quello di “Macchine”.
Io e Ninetto decidemmo di studiare “Fisica Tecnica” per sostenerne l’esame parziale prima della fine delle lezioni e “Scienza delle Costruzioni” per darne l’esame al primo appello della sessione estiva.
Avremmo poi deciso se al secondo appello della stessa sessione dare l’esame della parte rimanente di “Fisica Tecnica” o fare quello di “Elettrotecnica”.
Per ogni materia esistevano dei buoni testi o dispense preparate dai docenti ma alle lezioni di Elettrotecnica occorreva prendere appunti, anche delle virgole, perché spesso il professor Savagnone, titolare della cattedra, avendo problemi respiratori, trascriveva alla lavagna le intere sue lezioni, tra l’altro rare.
La maggior parte delle lezioni di “Elettrotecnica” venivano svolte da due suoi assistenti gli ingegneri Mamola e Morana.

Essendo anche direttore d’istituto era riverito e temuto da tutti. Poteva apparire un “matto”, ma preso per il verso giusto era un nonno.
Aveva inventato un nuovo raddrizzatore a vapori di mercurio con griglie di controllo dell’arco sostituite da campi magnetici esterni.
La presenza nell’aula di un campione di tale oggetto era obbligatoria, pena il non svolgimento della lezione.
Un giorno notai che Totò Borsellino era a lutto (portava la cravatta nera e la fascia al braccio dello stesso colore). Lo avvicinai e gli chiesi cosa gli fosse successo e così venni a sapere della morte del padre.
Cominciammo a parlarci sempre più spesso perché gli studenti che frequentavano le lezioni non erano più così numerosi come prima ed era quasi impossibile non incontrarsi.
Non ricordo né come né perché in una di queste chiacchierate il discorso venne a cadere sui denti.
Io gli feci notare che i miei incisivi inferiori erano cresciuti due più avanti e due più indietro, mentre i suoi erano perfettamente allineati.
Si mise a ridere e mi fece notare che non aveva per niente i “canini”, cosa che non si notava per nulla se non gli guardavi dentro la bocca con attenzione.
Aveva subito delle traumatiche estrazioni proprio perché tutti gli altri denti potessero crescere in modo più regolare possibile.
Come preventivato con Ninetto riuscimmo a sostenere insieme il colloquio di “Fisica Tecnica” prima che si concludessero le lezioni, ma per fare questo e contestualmente seguire con impegno le varie materie fummo costretti a saltare diverse lezioni di “Scienza delle Costruzioni”.
Decidemmo quindi di abbandonare temporaneamente lo studio di tale materia lasciando inalterato il resto.
Di conseguenza Ninetto fece l’esame di “Fisica Tecnica” al primo appello della sessione estiva e quello di “Elettrotecnica” al secondo, mentre io, essendomi dato un po’ troppo ai divertimenti, sostenni solo

l’esame di quest’ultima ed al secondo appello, dopo aver festeggiato sia il diploma di “perito industriale” di Gianni Alagna che il matrimonio di mia cognata avvenuto il 18 di luglio.
Ed in quest’ultima occasione fui presentato come fidanzato di Ina ad amici e parenti.
Quando sostenni l’esame di “Elettrotecnica” il professor Savagnone era in un giorno particolare. Faceva un caldo asfissiante e da circa una settimana non veniva agli esami e questi non potevano essere fatti senza di lui.
Superai l’esame con “27” dopo aver assistito ad alcune bocciature consecutive su una domanda difficile da interpretare ma veramente semplice, quando la si fosse capita:
“Mmu”
Dopo le suddette bocciature uno studente capì che “mmu” era il coefficiente “μ” che lega l’induzione magnetica al campo magnetico e la situazione si sbloccò.
Prima dell’inizio del nuovo anno l’istituto di “Elettrotecnica” sarà trasferito in Viale delle Scienze.
Col matrimonio di Giovanna e col “fidanzamento ufficiale” avrei potuto frequentare Ina in casa sua o uscire con lei (accompagnati!).
Ma i miei genitori continuarono a rinviare questo giorno, perché era usanza dare alla fidanzata il rituale anello col brillante, ed i soldi per comprarlo non c’erano.
Per tutta l’estate né io né Ina sentimmo la necessità di frequentarci in casa sua perché ci erano sufficienti il tempo che passavamo in compagnia degli amici (lei era sempre assieme a Giovanna e Pino), gli appuntamenti sotto la finestra e le lunghe telefonate ancora dopo.
Passai l’estate del “63 dedicando gran parte del tempo ai divertimenti col folto gruppo di amici di Romagnolo, tra i quali Filippo Spanò, i due omonimi cugini Giovanni Cardella e Totò Savoca.

I fratelli Di Paola avevano un robusto gommone non professionale che veniva utilizzato in genere come imbarcazione d’appoggio per la pesca subacquea, che in molti facevamo in apnea.
Qualcuno rimaneva sul gommone controllando quelli che pescavano.
La pesca veniva fatta nei pressi della “Pietralba”, un grosso scoglio tufaceo distante una ventina di metri dalla riva.
Il mare circostante era ricco di granchi (i pelosi) e murici (muccuna).
Si potevano trovare anche un po’ di ricci e, scavando con le mani dove c’era sabbia, anche un po’ di vongole.
Queste però si raccoglievano in quantità maggiore in una zona limacciosa che si trovava più vicina alla riva. E prendendo il limo dal fondo si raccoglieva anche la “tremolina”, il caratteristico verme usato per la pesca con la canna.
Ma le vongole anno dopo anno andavano ad esaurirsi. Ricordo che il mio primo anno a Romagnolo, prendendo a due mani il limo, trovavo quasi una dozzina di vongole alla volta, l’anno successivo meno della metà fino all’esaurimento che stava già avvenendo.
La situazione era migliore al lido “Virzì”, dove c’era l’omonimo ristorante sul mare, perché era un po’ più lontano dalla foce del fiume Oreto, dove erano iniziati da qualche anno gli scarichi di tutti i peggiori rifiuti edili e di altra roba inquinante.
Il sacco di Palermo aveva bisogno dello smaltimento dei rifiuti edili ed il luogo dove era più facile smaltire era il mare.
Nessuno si accorgeva di quello che stava accadendo perché alle brutture ormai ci si stava abituando o ci si doveva abituare: se qualcuno vedeva, perché doveva denunciare proprio lui?
Per prendere i granchi occorreva una certa abilità e Totò Savoca era il più bravo. Riusciva a prenderli a mani nude anche con le chele rivolte verso l’alto e le tenaglia aperte.
Io prendevo solo murici e ricci perché dei granchi avevo paura, finché un vecchio guanto da saldatore di mio zio Nino me la tolse.

Ogni tanto utilizzavo questo gommone, nel quale potevano entrare almeno quattro persone, per fare un giro con Ina, mia sorella e qualche altra amica, ma non mi allontanavo mai troppo anche se le ragazze erano tutte in grado di stare a galla e comunque avevamo con noi qualche salvagente.
E spesso nel portare in giro col gommone le ragazze mi faceva compagnia Mario, il più piccolo dei fratelli Di Paola, che aveva appena finito il terzo liceo scientifico.

Quando le ragazze del gruppo che volevano fare un giro in barca erano in numero tale da non potere entrare nel gommone dei Di Paola, ci facevamo prestare la barca del signor Gargano, quattro dei cui figli (Nino, Ciccio, Giovanni, Carmelo) erano entrati nel nostro giro anche se un po’ più adulti.
Abitavano nella palazzina di Ina, all’ultimo piano, ed erano parenti dei Petrucci e parenti acquisiti di Luisa La Mattina, la figlia maggiore nata a Palermo del “picciotto garibaldino”, prozia di Ina.
Per il fatto di essere imparentati coi Petrucci i Gargano avevano un capannone all’interno dell’omonimo stabilimento balneare, dove il capofamiglia ed il figlio maggiore Totuccio, già sposato, nel loro tempo libero facevano dei lavori di falegnameria.
Totuccio Gargano lavorava a quello che era un hobby di alcuni playboy di Romagnolo: costruire un veliero. Ne aveva le capacità per essere insieme un ottimo conoscitore di barche e pescherecci ed un ottimo falegname. Vi lavorò per circa dieci anni, facendosi forse aiutare dal padre, ma sicuramente da qualche amico o parente, anche nelle spese per l’acquisto del materiale.
Cettina Di Mauro, Ina, Mario, Antonia

E riuscirà a realizzare quella che sembrava un’impresa impossibile.
Vidi il veliero in acqua nei primi anni ‘70, davanti al lido Petrucci, dopo il varo. Era lungo una dozzina di metri ed al centro largo quasi quattro e veramente bello.
Ma se per tutti il sogno di metterlo in acqua si realizzò, quello di mantenerlo naufragò quasi subito forse perché le spese erano elevate o forse perché i playboy dopo dieci anni erano tutti accasati e padri di famiglia. Lo tennero per un sola stagione e poi lo vendettero.
In questo capannone trovava riparo anche la barca di qualche altro pescatore. Una di queste era quella di Stefano Raccuglia, che era un po’ più grande della “lancia” dei Gargano. E talvolta anche lui ci prestava la barca, specialmente se andavamo in tanti a chiedergliela.
Stefano aveva circa una decina d’anni più di me e faceva il venditore di pesce; apparteneva ad una famiglia di gente di mare ciascuno dei quali era soprannominato “bucciaru”, forse perché qualche familiare in passato aveva posseduto un campo di bocce dentro o vicino agli stabilimenti balneari o era stato un falegname, tornitore anche di bocce, che a Palermo erano rigorosamente in legno. Chissà!
Non aveva né una bottega né un bancone. Si metteva all’inizio di Viale Amedeo d’Aosta nei pressi dell’edicola ad angolo con la chiesa di San Giovanni Bosco.
Accanto a lui ed a fargli scherzosa concorrenza si metteva un altro venditore di pesce, uno dei vari maschi della famiglia Pennino.
E siccome la loro modalità di farsi concorrenza aveva fatto breccia nei cuori e nelle menti degli abitanti di Romagnolo, i duellanti che compaiono nel “quattro di coppe” delle carte siciliane venivano chiamati “u bucciaru e u pinninu”, appellativo sempre ripetuto quando si metteva a terra la carta, specialmente se il gioco era la “briscola”.
C’erano altri tipici personaggi della zona a metà tra venditori di roba di mare e pescatori. Non erano vecchi, ma piuttosto dei baldi ex giovanottoni tra i quaranta ed i cinquanta, che avevano famiglia ma che non sono mai riuscito a capire se erano in grado di mantenerla o no.

Uno di questi, che ancora in quegli anni portava i baffoni di una volta, passava la mattinata a cercare vongole veraci, di cui il mare di Romagnolo fu pieno fino ai primi anni ’60, e poi le rivendeva portandole in giro con un paniere per pesci (di forma ellittica e profondo una decina di centimetri) che teneva al braccio.
Un altro, appartenente ad una delle tante famiglie Morana di Romagnolo, pescava invece granchi che poi rivendeva bolliti oppure pesce fresco se era riuscito a prenderne con una rete che metteva in acqua al tramonto e ritirava all’alba. Camminava sempre a torso nudo.
Quando usavo la “lancia” dei Gargano mi mettevo da solo ai remi, ma se le persone a bordo erano numerose o si usava la barca di Stefano Raccuglia, che era un po’ più pesante, allora in genere si remava in due e quello che remava meglio con me era Vittorio Costantino, col quale si era venuta a creare una sincera amicizia.
Vittorio in genere non veniva al mare di mattina perché aveva iniziato a fare l’assistente post-vendita per la “Radio Marelli”. Veniva spesso nel pomeriggio, specialmente se c’era Annuccia.
Quasi sempre facevamo con le ragazze un giro di mezz’ora al massimo, ma un tardo pomeriggio, con un mare calmissimo e senza rischi che il tempo potesse cambiare ci spingemmo molto al largo.
Non ci eravamo resi conto di quanto ci fossimo allontanati, c’erano dieci persone a bordo (oltre a me e Vittorio), erano oltre le sette e mezzo e mancava poco al tramonto.
Dissi allora a Vittorio di rigirarci e di remare con impegno perché rischiavamo di arrivare col buio; in mezz’ora riuscimmo a compiere quel percorso di oltre mezzo miglio che ci separava dalla riva.
Arrivammo che il sole era tramontato da qualche minuto ma c’era ancora una buona visibilità.
E sempre con questa barca stavo facendo un giro con alcuni dei soliti ragazzi di Romagnolo in un giorno di Pasquetta quando si ruppe uno scalmo e non ce n’era un altro intero in nessuno dei due lati della barca per cui rimanemmo senza poter remare da un lato.

Avremmo potuto utilizzare i remi usandoli a mo’ di pagaie ma decidemmo, anche per divertirci un po’, di ritornare a vela. Antonello usò un remo come timone tenendolo con la forza delle braccia. L’altro venne messo al centro della barca e lì tenuto in verticale da Ninetto, mentre gli altri cercavano di arrotolarvi intorno le maniche delle camicie e poi i pantaloni.

Impiegammo un’ora per fare meno di cento metri, ma ci divertimmo come dei bambini perchè arrivammo tutti in mutande!

continua

Parte del tempo trascorso al lido Petrucci lo spendevo giocando a poker e bisognava avere un po’ di soldi.
Per procurarmeli andai a lavorare per mille lire al giorno ai mercati generali nel periodo più intenso della vendita dei pomodori.
Me lo aveva proposto Gianni Alagna che c’era andato col signor Marino, quello che in Via Cannella abitava al primo piano e che ora abitava al secondo piano della palazzina al numero 14.
Il mio lavoro consisteva nel controllare l’importo, calcolato a mente da Gianni o dal Signor Marino al momento della vendita dei prodotti, fatta nella bolgia, aggiungergli l’IGE del 2,3% e fare la fattura. Talvolta mi aggiungevo ai venditori ma solo se era presente il padrone del box di vendita.
A poker non perdevo quasi mai, anzi posso dire che vincevo quasi sempre perché rischiavo pochissimo ed ero abbastanza capace di sventare i “bluff”, come Ninetto e contrariamente a Totino che invece spesso bluffava.
Un giorno Totino mi chiese se me la sentissi di spalleggiarlo per dare una “stangata” ad uno che gli aveva levato qualche migliaio di lire alcuni giorni prima e che faceva con lui lo sbruffone, non dandogli la rivincita finché non avesse soldi meritevoli di una nuova spennatura.
Ninetto, Pierino, Antonello
Acconsentii e Totino gli preparò la trappola. Trovò l’occasione di giocare in tre, cosa che a poker in genere non si fa.
Ci eravamo inventati in precedenza un codice d’apertura e di rilanci per cui a rischiare contro il “pollo” sarebbe sempre stato il più forte. In questo modo, anche se scorretto, Totino riuscì a riavere i soldi persi prima e con gli interessi. Lo “spennatore stangato” non volle più giocare a poker con noi.
A settembre ripresi a studiare per sostenere l’esame di “Componenti elettronici” al primo appello della sessione autunnale, mentre Lino Macchiarella, Paolo Grassadonia e Totò D’Alfonso se ne andavano in giro per il Nord Europa.
Al primo appello della sessione autunnale sostenni l’esame con l’ingegner Laurin, docente della facoltà e dipendente della Raytheon-Elsi, una società a capitale statunitense operante in vari settori, dai televisori ai transistori ed ai magnetron.
Al secondo appello sostenni l’esame di “Metallurgia e Metallografia” col professor Amari, anziano assistente del professor Stassi, sui quali si parodiava la canzone Sassi di Gino Paoli:
“Stassi che Amari ha consumato”
Avevo studiato questa materia con un collega che si chiamava Vento ed abitava all’interno della stazione ferroviaria di Sant’Erasmo, nonostante che questa fosse stata dismessa da diversi anni. Il padre ne era stato capostazione ma era riuscito a tenere l’abitazione dopo il trasferimento ad altra sede di lavoro.
Lino, Paolo e Totò a Lubecca
Lino, Paolo e Totò a Malmoe
Ed anche con Vento, che quotidianamente andavo a trovare e salutavo chiedendogli:
“Chi sei tu?”
a cui rispondeva con:
“Io sono il vento, sono la furia che passa e che porta con sé”
parodiavamo la canzone di Arturo Testa “Io sono il vento”.
Prima della chiusura, da tale stazione iniziava la linea a scartamento ridotto che collegava Palermo con Burgio.
Il treno costeggiava tutto il litorale fino ad Acqua dei Corsari, caricando e scaricando in estate i bagnanti degli stabilimenti balneari.
Qui si internava verso Portella di Mare, la valle del fiume Eleuterio, Misilmeri, Villafrati e Godrano per raggiungere Corleone, dopo il bosco della Ficuzza, in cui c’è la “Real casa di caccia” fatta costruire dal re borbonico Ferdinando III.
Continuava poi per Contessa Entellina, Bisacquino e Chiusa Sclafani e raggiungeva San Carlo, dove c’era l’incrocio col treno da/per Castelvetrano. Infine da San Carlo raggiungeva Burgio.
Durante il breve periodo di studi con Vento, poco più di un mese, si svolse a Palermo la “festa della matricola”, festa universitaria che non si teneva da tanti anni.
Quel che ricordo è che si andava in giro con in testa il cappello universitario, indicante l’anno di frequenza, armati di fischietti e trombette, a piedi o con vecchie macchine bardate a festa.
Si poteva andare gratis ai cinema, entrando in numero limitato (circa una dozzina), e si poteva fare la questua casa per casa per sostenere le piccole spese fatte (Vento si ripagò l’affitto di una vecchia Balilla fatto in un’officina meccanica di Via Meli per andare in giro).
Durante tale festa ebbi l’occasione di conoscere uno studente di medicina, Tortorici, col quale avrò a che fare quasi sette anni dopo, in occasione della nascita di Claudia, la prima figlia mia e di Ina.
9. Il quarto anno d’ingegneria
All’inizio del quarto anno di università, oltre a seguire le lezioni delle nuove materie, ripresi a studiare con Ninetto. Prima però completai al primo appello della sessione invernale l’esame di “Fisica Tecnica”.
Mi mancavano gli esami di “Scienza delle Costruzioni” e di “Meccanica e Macchine”. Anche Ninetto, sebbene non avessimo studiato insieme per quasi sei mesi, aveva dato le stesse mie materie.
Il primo dicembre del 1963 finalmente mi fidanzai in modo ufficiale, come era allora usanza nel mio quartiere, con fiori ed anello.
Non era l’anello col solitario, ma comunque un anello d’oro bianco tempestato di brillantini, acquistato dai miei genitori facendo qualche debito. Quello col brillante solitario glielo avrei fatto dopo, quando non sarei più dipeso dai miei genitori, ma Ina non l’ha mai voluto, perché trovava sempre qualcosa di più importante da fare per la nostra famiglia.
Decidemmo di preparare per la sessione invernale del terzo anno l’esame di “Meccanica” e ne sostenemmo l’esame nello stesso giorno col professor Costanzo (quello che per sottolineare qualcosa vi disegnava a lato il simbolo degli occhiali elevato ad un esponente proporzionale all’importanza della stessa).
Alla fine delle sessioni del terzo anno eravamo tra quelli che avevano sostenuto più esami, ed anche con una buona media, come con una sua personale indagine aveva verificato Gianni Durante, uno dei nostri migliori colleghi di corso, a proposito del quale ricordo che un giorno, osservando il prezzo dei libri in possesso di alcuni colleghi, mi disse:
“Ma come si fa ad andare avanti in questo modo con un solo genitore che lavora e porta in casa 110 mila lire al mese!”
Ed il padre lavorava in banca!
Rinforzai le sue lamentele con l’aggiunta delle mie dicendo anch’io:
“A casa tua entrano 110 mila lire, nella mia arriviamo forse ad 80.”
Mi disse ancora: “Ah, anche tu sei messo bene!”
Fu tra i primi del corso a laurearsi e divenne subito assistente universitario. A lui fu dedicata un’aula della facoltà di “Ingegneria Elettronica” dopo avere perso la vita nel maledetto disastro aereo di Montagna Longa, avvenuto per un errore umano il 5 Maggio del 1972.
Con lui morirono altri due ingegneri del primo corso di laurea in elettronica, Paolo Grassadonia che lavorava a Genova alla Marconi ed il simpaticissimo Pino Travia, col quale ci eravamo tanto divertiti a pallone, che lavorava (se non ricordo male) alla IBM.
Durante il periodo in cui studiavo Meccanica con Ninetto, di sera ritornavo a casa a piedi e prima di lasciare la sua casa facevo una telefonata per avvertire Ina.
Lei mi veniva incontro con mia sorella Antonia e con Giovanna già incinta e che aveva necessità di camminare; se arrivavano prima loro mi aspettavano all’uscita del tunnel di Via Decollati nei pressi di Piazza Scaffa.
Alla fine del mese di Marzo Giovanna partorì la sua prima figlia a cui fu messo il nome di Maria Grazia. Aveva 16 anni e 5 mesi.
Le materie ed i docenti del 4° anno erano: Elettronica (Tamburello), Comunicazioni elettriche (Romano), Campi elettromagnetici e circuiti (Conciauro), Macchine elettriche (Savagnone), Misure elettriche (Vincenzo Cataliotti), Impianti elettrici MT/BT (Antonino Cataliotti), Tecnologie Meccaniche (Stassi).
Come esami da sostenere nella sessione estiva del quarto anno (1964) io e Ninetto decidemmo di sostenere al primo appello “Comunicazioni elettriche” ed al secondo “Misure elettriche”, materie che seguimmo diligentemente per tutto l’anno.
Quando finirono le lezioni di “Misure elettriche” il professor Cataliotti ci raccomandò di dare l’esame dopo aver sostenuto quello di “Macchine elettriche”.
Superammo l’esame di “Comunicazioni elettriche” ed eravamo indecisi sul da farsi per “Misure elettriche”, per il cui esame ci bastava studiare per poco tempo mentre non ne avevamo abbastanza per studiare “Macchine elettriche”.
Decidemmo di presentarci lo stesso all’esame senza seguire la sua raccomandazione.
Pensavamo che, avendoci visto seguire le sue lezioni per tutto l’anno, al massimo ci avrebbe abbassato un poco il voto.
Probabilmente prese la cosa come una sfida e ci fece un esame quasi esclusivamente di macchine elettriche, arrivando a scriverci anche “respinto” sul libretto.
Diedi per primo l’esame e fui bocciato. Ninetto per onorare l’impegno preso con me di sostenere l’esame, pur sapendo di venire bocciato, lo sostenne lo stesso
Era il primo “respinto” che prendevo e compariva pure sul libretto, perché ad “Analisi matematica 1” il professor Rizzoni mi aveva semplicemente invitato a ripresentarmi e non era rimasta alcuna traccia sul libretto.
Non so per quale motivo lo abbia fatto, perché “Macchine elettriche” non era bloccante per “Misure elettriche” tant’è vero che Totò Borsellino sostenne prima l’esame di “Misure Elettriche” e poi quello di “Macchine Elettriche” superandoli, come testimonia il suo libretto.
E mentre io dovevo accettare una ingiusta bocciatura in questa materia, Lino e Totò si laureavano in legge (1a sessione del 4° anno!).
Non fecero alcuna festa. A luglio partirono per il servizio militare come allievi ufficiali di complemento, Totò in artiglieria e Lino nel Genio Pionieri.
Fecero le cose talmente in fretta che non ebbero neanche il tempo di salutarmi, o forse vennero a casa mia e non mi trovarono perché andavo a studiare a casa di Ninetto.
Non me la sentii di tentare un nuovo esame, non avendo studiato a sufficienza un’altra materia.
Ninetto, invece, che forse aveva seguito meglio di me “Campi elettromagnetici” durante l’anno, azzardò l’esame e lo superò, portandomisi avanti di una materia.
Passai l’estate del 1964 allo stabilimento Petrucci dove strinsi sempre di più amicizia coi ragazzi di Romagnolo.
Veniva regolarmente al mare da Petrucci anche Ina, perchè sua zia Pupetta (sorella della madre) aveva affittato una capanna nello stabilimento balneare.
Essendoci la zia, Ina era sotto il controllo di una parente e quindi potevamo frequentarci, cosa che già cominciava a non importare niente a nessuno perché i fidanzati, specialmente se scolarizzati, a Palermo già uscivano da soli.
Recuperai subito la materia di cui Ninetto mi era avanti, perché ne diedi l’esame al primo appello della sessione autunnale, poi con Ninetto sostenni l’esame di “Macchine elettriche” che avevamo studiato insieme nel periodo estivo e quello di “Misure elettriche” che avevamo semplicemente ripassato.
A completamento delle sessioni d’esame del quarto anno io e Ninetto sostenemmo col professor Rubino l’esame di “Macchine” in modo da completare l’esame di “Meccanica e Macchine”: avevamo fatto l’esame di meccanica esattamente un anno prima.
Poi ognuno per proprio conto sostenne col Professor Antonino Cataliotti (padre del docente di Misure elettriche) l’esame di “Impianti elettrici a media tensione e bassa tensione”, una materia per la quale entrambi ritenemmo che non fosse necessario studiare insieme.

continua

Il quinto anno d’ingegneria
Alla fine del quarto anno (sessione di febbraio 1965) io e Ninetto eravamo tra quelli che avevano sostenuto più esami. Eravamo indietro solo di “Scienza delle costruzioni”, “Tecnologie meccaniche” ed “Elettronica”.
Elettronica era la materia che necessariamente dovevamo studiare per prima, perché propedeutica a tutte quelle del quinto anno e cioè Controlli automatici, Radiotecnica, Tecnica delle iperfrequenze, Complementi di comunicazioni elettriche, Misure elettriche ad alta frequenza, Circuiti logici e calcolatori elettronici, Elettronica dei circuiti a scatto.
Ne avremmo sostenuto l’esame al primo appello della successiva sessione per poi pensare alle altre. E così iniziammo a fare.
Ma stava succedendo qualcosa di strano che sfortunatamente non riuscii a percepire in tempo.
I rapporti con Totino cominciarono a cambiare senza motivi plausibili ed ancora oggi mi chiedo il perché.
Cominciammo ad avere qualche piccolo screzio e forse a scambiarci qualche parola un poco più pesantuccia che io assorbivo senza alcuna conseguenza, mentre per Totino era diverso.
Quanto mi dispiacque quel che avvenne!
Una mattina, ad una sua battuta non tanto signorile gli risposi in maniera volgare.
Ninetto fu costretto a mettersi in mezzo e non mi fu più possibile né studiare con lui né passare insieme a lui qualche giorno nello stabilimento balneare, pur rimanendo in ottimi rapporti.
Mi ritrovai a studiare Elettronica da solo, ma sentivo la necessità di dovermi confrontare con qualcuno, per capire quanto fossi in grado di ripetere quello che avevo imparato.
Andavo cercando quindi chi tra gli studenti del mio anno si stesse preparando a dare questo esame per la sessione estiva del 1965.
Ne trovai uno tra quelli del corso precedente, Pino Rosselli, della qual cosa non fui inizialmente molto contento, perché non era riuscito a fare il biennio in due anni.
Ma quanto mi sbagliavo! Era un ottimo studente. Aveva avuto i suoi problemi di gioventù!
Aveva sostenuto il mio stesso numero di esami ma aveva fatto l’esame di “Scienza delle costruzioni” e gli mancava quello di un’altra materia del terzo anno che io invece avevo dato.
Decidemmo (sfortunatamente per me) di dare insieme prima tutti gli esami comuni e durante il periodo di sviluppo della tesi di sostenere quella che ciascuno di noi non aveva dato.
I nostri non furono solo incontri di studio, furono qualcosa di molto più profondo. Dopo esserci visti un paio volte sembravamo conoscerci da una vita.
Eravamo fisicamente agli antipodi: lui alto 193 cm ed io 171, lui un cespuglio di peli ed io quasi nulla all’infuori dei capelli.
Per farmi ridere mi diceva che dal suo manto spuntavano solo gli occhi e le palme delle mani e dei piedi ed io per far ridere lui gli dicevo che mi depilavo ogni mattina, perché speravo che in tal modo i miei peli crescessero prima e più ispidi.
A quei tempi gli uomini erano orgogliosi di mostrare la loro villosità, in special modo al petto!
Avevamo però una cosa in comune: la voglia di sposarci con le rispettive fidanzate quanto prima possibile.
Facemmo un patto ed un voto: studiare insieme tutte le materie che avevamo da sostenere in comune e fare a piedi la salita verso il santuario di Santa Rosalia ad ogni materia superata.
E di materie da dare insieme ne avevamo nove su dieci!
Avremmo studiato l’altra materia ciascuno per proprio conto, nel periodo di preparazione della tesi. Per me non sarebbe stato un problema perché disponevo delle dispense del professor Corrao.
Ci liberammo di Elettronica nella sessione estiva del 1965, purtroppo al secondo appello cosicché non riuscimmo a sostenere altri esami in tale sessione.
L’esame di Elettronica si componeva di una prova scritta, uguale per tutti gli esaminandi, e di una orale che veniva svolta successivamente.
Nessuno dei partecipanti fu in grado di svolgere più dei due terzi del compito scritto, molto lungo e con svolgimento di una gran quantità di calcoli da effettuare col regolo.
Io arrivai più o meno a tale percentuale ed avevo ottenuto gli stessi risultati numerici di Rosselli per cui mi sentivo abbastanza tranquillo.
Quando arrivò il mio turno d’esame orale il professor Tamburello, dopo aver preso il foglio del mio compito, mi disse:
“Non le dovrei far sostenere gli orali, perché oltre a non completare il compito lei non sa neanche scrivere in italiano.”
E mi aprì il foglio, quasi con disprezzo. Non c’era segnato niente, né in rosso né in blu, a parte una frase di due righe, di quelle che si mettono per creare un legame tra un calcolo ed un altro, sottolineata sia in rosso che in blu e varie volte.
Avevo scritto:
“ …, di cui ne.…”
Nel ricopiare ed integrare con qualche frase la brutta copia in cui erano presenti solo calcoli, preso dalla fretta, non mi ero reso conto dello svarione.
Allo scritto mi aveva messo “17”. Sostenni un brillante esame orale ma per colpa di quello svarione fui approvato con “25”.
Pino Rosselli invece prese “25” allo scritto per il fatto di avere svolto due terzi di compito, fece un ottimo esame orale ed alla fine fu approvato con un voto molto alto (non ricordo se fu “28” o “30”).
Il voto preso in Elettronica è stato quello che mi ha fatto più male tra tutti quelli presi successivamente nei miei esami sostenuti assieme a Pino Rosselli, ad eccezione dell’ultima.
Durante l’estate del 1965 andai al mare pochissime volte perché studiavo con Pino quasi tutti i giorni, in genere di mattina ma spesso anche di pomeriggio.
E quelle volte andavo ai bagni Petrucci, perché i miei compagni di liceo non li vedevo quasi più.
Totò D’Alfonso e Lino Macchiarella erano militari, Pino Cinà aveva dovuto sostituire nel lavoro il padre, deceduto già da qualche anno. Ad Armando il mare non piaceva. Umberto studiava e per carattere non prendeva mai per primo l’iniziativa.
E quando andavo ai bagni Petrucci cercavo di evitare gli incontri con Totino, che quasi sicuramente faceva lo stesso.
Qualche altra volta mi recavo con Rosselli a fare il bagno nei pressi di Sant’Elia. Ci andavamo con la “Cinquecento” del padre, che gli veniva un po’ piccola, ma in estate si poteva aprire il tettuccio!
E poi occorreva vincere la concorrenza del fratello minore che era sempre più veloce di lui nel venire a sapere che la macchina del padre era disponibile.
Nella sessione autunnale, dopo aver studiato insieme tutta l’estate, in genere solo di mattina, riuscimmo a superare gli esami di “Tecnologie meccaniche” e “Complementi di comunicazioni elettriche”, ma non ricordo con chi facemmo gli esami.
Nel periodo in cui sostenni questi esami Lino e Totò finirono il servizio militare ed iniziarono a studiare di nuovo insieme in vista di futuri concorsi.
Se ne andavano a studiare nella biblioteca della “Chiesa del Gesù” nota a Palermo come “Casa Professa”, i cui “padri gesuiti” tenevano corsi formativi per i giovani palermitani.
Quando Totò me ne parlava mi chiedevo come mai con le sue idee di sinistra se ne andasse dai Gesuiti, di cui mi parlava sempre bene.
Mi vedevo raramente con Totò perché era il periodo più intenso dei miei studi; era sempre lui che mi veniva a trovare e mi dava notizie degli altri compagni di liceo.
Talvolta con lui ed Armando andavamo a trovare Pino Cinà a Ciaculli, ma con Lino ed Umberto avevo in pratica perso i contatti.
Superati gli esami della sessione autunnale, io e Rosselli decidemmo di rifrequentare le lezioni delle rimanenti materie del quinto anno e di sostenere l’esame di “Circuiti logici e calcolatori” nella successiva sessione invernale.
Nella stessa sessione, se fosse stato possibile, avremmo poi sostenuto anche quello di “Radiotecnica”.
Rifrequentare le lezioni con le relative esercitazioni ci assorbiva molto tempo per cui ce ne rimaneva poco per studiare ed eravamo indietro nello studio di “Circuiti logici e calcolatori”, che intensificammo nel periodo natalizio.
Ricordo che prendevo l’autobus “25” la mattina presto intorno alle sette davanti allo stabilimento Petrucci per recarmi a casa di Rosselli che era nelle vicinanze di Via Empedocle Restivo.
La mattina del 30 dicembre del 1965 Ina mi avvertì che la sorella stava per partorire.
Quando arrivai a casa di Pino, sua madre mi disse che mia cognata aveva partorito un’altra bambina, Benedetta Maria Sabrina. Glielo aveva comunicato Ina.
Poco più di un mese dopo, al primo appello della sessione invernale, sostenemmo l’esame di “Circuiti logici e calcolatori elettronici” con l’ing. Morana, uno dei giovani assistenti dei professori Savagnone e Tamburello (assieme a Mamola, Bellomo, Daneu, Sannino).
Non riuscimmo a sostenere invece l’esame di “Radiotecnica”, per cui mi rimanevano gli esami di “Scienza delle costruzioni” e delle ulteriori cinque materie del quinto anno (Radiotecnica, Tecnica delle iperfrequenze, Misure elettriche ad alta frequenza, Elettronica dei circuiti a scatto e Controlli automatici).
Il 2 giugno 1966, festa della repubblica, mia cognata Giovanna parti per gli Stati Uniti con le due bambine Maria Grazia e Sabrina ed accompagnata dalla madre.
Avendo seguito con assiduità le lezioni delle materie del quinto anno e studiato con sufficiente intensità, nella sessione estiva di giugno (prima sessione come fuori corso) superammo al primo appello l’esame di “Radiotecnica” col professor Centineo.
All’inizio del secondo appello superammo quello di “Tecnica delle iperfrequenze” con l’ing. Busacca, che come l’ing. Laurin lavorava alla Raytheon-Elsi e collaborava con la facoltà di Elettronica.
Anche agli esami di queste ultime due materie i miei voti furono un “26” ed un “25”, mentre quelli di Pino Rosselli furono probabilmente “30” e “28”.
Non riuscivo a capire il perché di questa differenza se entrambi rispondevamo bene a tutto. Era invece chiarissimo.
I docenti guardavano il libretto e si lasciavano influenzare dai voti riscontrati, non discostandosi molto dalla media di questi nel caso di buoni esami, essendo sempre pronti a voti più bassi in caso contrario.
Passerà circa mezzo secolo prima che il libretto universitario sia sostituito da uno strumento elettronico che non influenzi i docenti agli esami!
In ogni caso, un poco incavolato ed un poco contento per essermi liberato di altri esami ero diventato un esperto conoscitore della strada vecchia che portava al santuario di S. Rosalia. Conoscevo non solo il numero di rampe ma anche quello dei passi.
Decidemmo di provare anche l’esame di “Misure elettriche ad alta frequenza”, visto che l’ing. Di Maio faceva esami sin quasi a fine luglio, ma a metà del mese Pino non se la sentì di continuare.
Io invece sostenni l’esame con successo ed anche in questa materia presi “26”.
Mi presi un breve periodo di riposo durante il quale non vidi più Pino Rosselli, che molto molto probabilmente si stava preparando a dare l’esame della materia che non aveva sostenuto a luglio.
Ebbi così varie occasioni per rivedermi con i miei vecchi compagni di liceo ed andare al mare con loro.
Un bel giorno decidemmo di andare allo stabilimento del “ratto delle birre”. Ero con Lino, Totò, Armando ed il fratello Salvo che aveva già cominciato ad uscire con noi.
Ci eravamo appena spogliati e già Lino e Totò stavano nuotando verso la scogliera opposta a quella in cui ci eravamo posizionati. Nuotavano piano attendendo che anche io e Salvo scendessimo in acqua.
E quando ripartirono con noi dietro, ecco che Salvo senza volerlo cambia la mia giornata da bella a come peggio non avrebbe potuto essere, con questa frase:
“Lo sai che è morto Corradino?”
Chissà perché ho pensato al professor Gallo il cui nome era Corrado.
Pensavo che gli avesse dato un affettuoso diminutivo proprio perché era morto.
Gli risposi, anche io con tanto affetto verso il defunto:
“Poverino, non era poi vecchio! Ha lasciato la figlia così piccola!”
Mi disse allora:
“Ma che hai capito? Non sto a parlare del professor Gallo, parlo di
Corradino Corrao, il professore di Scienze delle Costruzioni.”
Se mi avessero dato una randellata in testa, l’avrei assorbita meglio.
“Ma comunque non preoccuparti” continuò “Mazzarella ha interrogato gli elettronici come avrebbe fatto Corrao, solo sulla teoria dell’elasticità.”
Confortato dalle ultime parole di Salvo e convinto che il professor Mazzarella avrebbe interrogato gli studenti di Corrao sempre alla stessa maniera, invece di darmi allo studio di “Scienza delle costruzioni” e sostenere l’esame il prima possibile, misi una pietra sopra a tale materia e decisi di darla per ultima privilegiando sempre il rapporto con Pino Rosselli, quello cioè di studiare prima “Elettronica dei circuiti a scatto” e poi “Controlli automatici”.

La Villa Moncada di Larderia nel mio ricordo

villa Larderia (foto Lanza Tomasi)

Non ci sono tante foto di Villa Larderia, villa di fine Settecento, dove per anni ha abitato la grande Famiglia Petrucci perché prima non c’era la cultura di fare foto e raramente a panorami, case o ville.
La Villa Moncada di Larderia era in affitto alla Famiglia Petrucci e quando fu lasciata, anche se non era in perfette condizioni perché la Principessa non aveva mai voluto fare lavori, non era così diroccata come si presenta adesso; il proprietario cominciò a demolirla, per non so quale motivo, ma “Italia nostra” si accorse che stavano demolendo una villa del Settecento e fermò i lavori… ma tutto è fermo ad allora, con in più il logorio delle intemperie e del tempo che passa.
Provo a descriverla un po’: prima dell’apertura di Viale Amedeo D’Aosta, si entrava da un grandissimo portone in legno, da dove si poteva entrare a piedi attraverso un portone più piccolo che si apriva in quello enorme che serviva a far entrare le carrozze. Il grande portone era posizionato all’ingresso dell’attuale Viale Amedeo D’Aosta e subito c’era un grande giardino che confinava con la Chiesa, con una grande e bella fontana con panchine in giro e un Canneto, c’era poi un orto e dei vialetti; nel giardino c’erano anche due grandi alberi di gelso, uno bianco e uno nero, dove noi ragazzini ci arrampicavamo per gustarne i dolcissimi frutti. Questi due alberi furono abbattuti con parte del giardino, insieme alla fontana, al Canneto e al grande portone, per far spazio al Viale Amedeo D’Aosta.

1962 – Viale Amedo D’Aosta, con la chiesa San Giovanni Bosco, vista da Villa Larderia

Al piano terra c’erano poi le stalle e altre stanze per ricoverare le carrozze, dove in inverno, venivano ricoverati: ombrelloni, sedie, sdraio e sgabelli. Sempre al pianterreno su via Messina Marine vi erano delle abitazioni, una sala da barba e un calzolaio.
Salendo per le scale si arrivava ad un ampio ingresso dove subito sulla destra vi era un grande armadio a due ante, aperte le quali c’era un altare con tutto quello che serviva per dire Messa. Da questo ingresso sempre a destra, superando l’altare, c’era un’altra grande stanza molto luminosa, con un terrazzino ad angolo ed un balcone su via Messina Marine; da una porticina ad un angolo di questa stanza, si accedeva ad un minuscolo appartamentino per la servitù. Mentre a sinistra del grande ingresso, c’era la grande sala da pranzo con un grande camino, ai lati del quale c’erano due balconi: dai quali si scendeva in giardino.

(foto 1)-zio  Natale e zio Nino su uno dei due balconi della sala da pranzo che  portavano al giadino; (foto 2)-zio Natale e zia Enza nel giardino; (foto3)-zia Enza nel giardino (nello sfondo zio Natale e zia Pina)

Sempre dalla sala da pranzo si andava in cucina, con tanto di focolare con intorno delle belle mattonelle di maiolica smaltata, che poi fu tolto dalla zia Pina.
Dritto di fronte il grande ingresso, si apriva un’altra porta a due battenti che andava in un salone grandissimo con mobili antichi e grandi lampadari, con un balcone che dava su via Messina Marine; io da piccolina attraversavo questo salone sempre correndo, per paura che chissà chi sbucasse all’improvviso…
Poi ancora avanti dal grande salone (non c’erano corridoi ma le stanze si succedevano senza soluzione di continuità), c’erano le stanze da letto; la camera da letto di nonna, che fu poi di zia Pina, aveva un terrazzino ad angolo che dava sul mare e quindi sul Golfo di Palermo con il promontorio più bello del mondo: il Monte Pellegrino.
Era bellissimo giocare a “Nascondino” o a “Liberi tutti” a casa di Nonna Giulia, c’erano nascondigli e passaggi incredibili che noi cuginetti scoprivamo divertendoci tantissimo.

Divertimento puro ai Bagni Petrucci

Foto e musica del filmato sono prese dal web

…“Io che Amo solo te”, “Una lacrima sul viso”, “Se piangi se ridi”, “Cuore”, “24 mila baci”, “Stessa spiaggia stesso mare”,  “Sapore di sale”…

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I Bagni Petrucci punto d’incontro per la grande Famiglia Petrucci

Per molti anni, i Bagni Petrucci furono anche il punto di incontro della grandissima Famiglia Petrucci, che da Maggio a tutto Settembre (il 1° Ottobre iniziava la scuola) frequentava lo Stabilimento; quindi tutti i fratelli e le sorelle Petrucci, anche quelli che stavano fuori da Palermo (zio Natale e zio Vincenzo), tutti i loro cugini, i loro figli e nipoti si incontravano ai Bagni Petrucci. Quando si camminava per lo Stabilimento, era un continuo salutarsi, abbracciarsi e baciarsi (bei tempi senza il Covid!!!).

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I miei Genitori: Giuseppe Petrucci (Peppino, “u Prufissuri”) e Laura Campanella

Mia Mamma Laura Campanella, conobbe mio padre ai Bagni Petrucci, come d’altronde negli anni, mille e mille coppie si sono formate ai Bagni Petrucci, compresa la mia.

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